Appunti dal Tagikistan. Di spose bianchissime, dell’Afghanistan e di una bambina di nome Bibi

Pubblicato il 4 Gennaio 2019

Scritto da Eleonora

Gamarjoba painderoutiani, qui Tbilisi e cieli azzurri che vi racconterò molto presto. Dopo le settimane affannosissime di Natale e qualche giorno in viaggio con Sherpa e PrinceOfPersia riesco, oggi, finalmente a tirare un sospiro di sollievo e rilassarmi un po’, dopo tanti mesi. Starò in Georgia per un mesetto, ma nel frattempo continuo a pubblicare i miei diari dal Pamir tagico con qualche scritto inedito, mai pubblicato sui social. I prossimi appuntamenti saranno gli appunti dall’Uzbekistan e dal Kazakistan. Ma per il momento godetevi questi.

Se ve li siete persi, recuperate i primi appunti dal Tagikistan, oppure quelli del primo viaggio in Asia Centrale.

A presto e buona lettura,
Ele

C’è un uomo oltre il fiume

Un posto di blocco nel Gorno Badakhshan, sul confine con l’Afghanistan.

C’è un uomo in bicicletta
Oltre il fiume
Un uomo afghano
Sfiora il confine azzurro
Che nessuno osa toccare
Due donne camminano
Nella polvere delle strade
Colori puri da capo a piedi
Si abbracciano e io vorrei toccarle
Ma solo per sentirle reali
Lisce, di seta, come una paura
O un desiderio troppo grande
Al posto di blocco una camicia azzurra
Mi chiede se in Italia queste ce le abbiamo
Ma queste cosa, gli chiedo
Lui indica piano
Le montagne
Quello per cui sono venuta
Che mi commuove a ogni valle
Sì, gli rispondo, ce le abbiamo anche noi
E com’è la natura?
È tanto verde, gli dico, proprio così verde
E mentre lo dico mi si stringe il petto
Il poliziotto ha gli occhi più tristi
Che abbia mai visto
Azzurro opaco, come la camicia
O come il Panj
Pieno di polvere
Mi sussurra do svidanija
Un saluto e un augurio
In una lingua che sa di gelo e taigà
Che non è sua
Che non è mia
Che ci avvicina e ci aliena
Come il fiume fa con gli afgani
Le loro case di terra, le motociclette
I muli e i tendoni umanitari
Tutti bagliori
Su un muro nero
Che alla fine fa davvero paura
Eppure rimane
Secco, brullo, scosceso
E intoccabile

Bibi significa ‘la rispettata’

Bibi e sua cugina a Langar, Wakhan Valley.

Bibi significa “la rispettata”. È un nome abbastanza comune nel mondo islamico, ma poche volte l’ho trovato così calzante come per questa bambina (a destra). Le raccontavo che saremmo andati a Murghab, dove lei non era mai stata. “Krasivo”, mi rispondeva (“bello”). Le raccontavo che eravamo stati a Khorog. “Krasivo”, mi diceva di nuovo. Leggevo dal suo libro di inglese alcune storie inventando fantasiose traduzioni in russo. Tutto per Bibi era красиво, un oceano di incalcolabile bellezza. Le ho letto dei ponti che si aprono di notte a San Pietroburgo. Dell’Ermitage, della fortezza di Pietro e Paolo. Poi le ho letto di Jurij Gagarin, “a hero”, come recitava il libro in stampatello e grassetto. All’inizio non l’avevano riconosciuto, allora ho spiegato che era il primo kosmonavt, il primo uomo nello spazio. Si sono illuminati. Aaah! C’erano tanti bambini in quella famiglia, tutti tremendamente gioiosi e curiosi, ma io leggevo solo per Bibi.

Nella valle Wakhan tutti imparano l’inglese. Tutti lo insegnano anche, e il netto è che lo si sa abbastanza maluccio, ma per il Tajikistan sono comunque grandi risultati. Quello che più mi ha colpito è stato il libro di testo: un testo palesemente sovietico tradotto in tagico dal russo. Una grammatica di inglese organizzata per gruppi lessicali, senza alcun tipo di priorità: prima tutta la frutta, poi tutta la verdura, poi tutti i vestiti e così via. Essendo una grammatica sovietica, i riferimenti al mondo anglosassone sono pari a zero. Se penso ai miei libri di inglese delle elementari mi vengono in mente la Union Jack, il tè delle 17, le cabine telefoniche e i bus di Londra, le zucche di Halloween americane e il trick or treat; In questo libro c’era solo la goffa trasposizione culturale dei giochi tradizionali dei bambini, la descrizione dei costumi delle bambine tagiche, le attrazioni turistiche di San Pietroburgo e la storia dell’infanzia di Jurij Gagarin. Un minestrone di elementi diversi con cui si imboccano bambini che vivono al confine con l’Afghanistan e hanno una lingua e una cultura uniche. Ho indicato un limone sul libro e Bibi è saltata per aria urlando “banana!”: effettivamente sono entrambi così gialli, e nel Wakhan non si trova nessuno dei due. Un leone prima di essere tale deve chiamarsi nella testa in lingua wakhi, poi шер (in tagico), poi лев (in russo) e infine lion. Questi passaggi si fanno per ogni singola parola in inglese che si vuole imparare, e non c’è scampo: una babele che per loro è l’unica possibilità di evasione da quella valle.

Spostarsi nella valle Wakhan è molto caro, la benzina costa circa 1€/litro, che per loro è moltissimo. Nessuno lascia la valle se non per motivi davvero importanti, come visitare l’ospedale o andare a un matrimonio. La valle è un piccolo paradiso autosufficiente, abitato da persone con una cultura profonda e gioiose di condividerla. Mi sembrava il ritratto dell’età dell’oro che sognavano gli antichi. I picchi innevati dell’Hindu Kush, il corridoio afghano, i colori dell’autunno e la vita lenta scandita dalle mandrie.

C’è un’ultima cosa che voglio dire. Bibi è una bambina esageratamente intelligente e spero con tutto il cuore che nella vita riesca a fare qualcosa che valorizzi tutte le sue potenzialità e la renda felice. Per quanto le persone del Wakhan vivano davvero in una società unica, antica, bilanciata e armonica, le donne non hanno le stesse possibilità degli uomini. Ve ne parlerò in un altro post. Tante figlie femmine, tutte belle e sveglie, ma il papà ha deciso di chiamare la sua homestay come l’unico figlio maschio, Nuriddin. Nel mio cuore, invece, quella homestay sarà sempre la Bibi homestay.

La sposa del Pamir

Una sposa del Pamir

Nazira è una sposa. Ha la mia età.
Ce l’ha detto senza entusiasmo, accennando un sorriso. Alla fine si è sposata.
– Ma forse dopo il matrimonio potrò continuare a studiare, ha subito aggiunto.

Le foto sono quelle consuete. Sposi mano nella mano, sorrisi pudichi, gli abiti tradizionali del Pamir color rosso fuoco. Lei dalla pelle bianco latte come tutte le spose pamire, capelli nero corvino e un velo rosso orlato d’oro – sembrava la più bella delle principesse persiane. Lui dalla carnagione scura, nessun sorriso, gli occhi piccoli, il collo grosso e le spalle larghe, il tutto ingiacchettato in blu molto elegante. Ho simulato il migliore entusiasmo: auguri, tutto il meglio per il futuro. Dentro di me non riuscivo però a essere veramente felice per lei. Nonostante il suo parlare da occidentale, le sue molte lingue, i suoi studi all’estero ho capito di non poterla leggere – né nel profondo né in superficie. Non poterla interpretare nel suo esprimersi. Non capirò mai il perché o il contesto della sua scelta, ma non ho potuto fare a meno di trovarci una punta di tristezza. È proprio lì che si solleva il muro invalicabile tra Oriente e Occidente. E nonostante tutto l’Asia Centrale rimane ancora Asia.

Nazira ha la mia età. Si è laureata in relazioni internazionali all’università di Almaty, in Kazakhstan, mentre lui studiava all’università in Russia. Stavano insieme da cinque anni, da quando lei era ancora al liceo, e lui stava per partire. Dopo la triennale aveva iniziato a cercare qualche master all’estero. Voleva venire a finire gli studi in Europa, ma lui le ha detto che non l’avrebbe aspettata più di così. Dopo cinque anni di relazione a distanza si doveva concludere, e anche in fretta.
In poche parole non aveva scelta: o si sposava adesso o forse lui l’avrebbe lasciata. E chissà cos’avrebbero detto gli altri. Chissà cosa avrebbe detto lei di se stessa. Chissà se invece poi alla fine non era quello che sognava veramente e l’università non era la strada giusta.
Ha smesso di cercare master all’estero, è tornata al villaggio del Pamir. Ora lavora per un’associazione locale.

Non sapevo bene che altro dire. L’ho incoraggiata comunque a provare a cercare opportunità di studio all’estero, il matrimonio non la deve per forza fermare. In Europa ci sono anche tante donne con figli che riescono a laurearsi e a fare la carriera che sognano. Abbassa gli occhi con un sorriso abbozzato – forse è meglio non parlarne più.

Mi immagino come dev’essere tornare nel Pamir, a 14h ore di strada sconnessa dalla capitale, dopo aver vissuto per tre anni da studentessa ad Almaty, l’unica vera città europea dell’Asia Centrale. Ma che cos’altro poteva fare? Chi le avrebbe dato i soldi per studiare altri due anni?
Ci aspetta a bordo strada il mattino dopo, per accompagnarci alla stazione. È vestita color kaki, capelli neri infiniti, un’aria sempre malinconica. La ringraziamo per l’ospitalità, ci abbracciamo. Nazira è stata la prima di molte ragazze spose che abbiamo incontrato nel Pamir. Donne dalla bellezza rara che si proteggono la pelle dai raggi del sole, per mantenerla più bianca possibile. Molte finiscono per vivere sole o coi genitori di lui, badando ai figli, perché il marito va a lavorare all’estero. Altre devono portare avanti l’orto, il bestiame e gestire la casa dei genitori del marito, dove si trasferiscono. I lavori a volte sono pesantissimi – nelle aree rurali non c’è acqua corrente, lavatrice, lavastoviglie o elettrodomestici per la casa: si fa semplicemente tutto a mano.

La sorella di Marzuna, una ragazza di 28 anni che vive in un minuscolo villaggio di case di fango della valle Wakhan, si è dovuta trasferire a Murghab, sull’altopiano del Pamir, seguendo il nuovo marito.
– È dura lì. A Murghab non ci sono alberi.
Non ci sono alberi. Neanche un albero: a quell’altitudine non crescono più, eppure gli uomini ci vivono. Murghab è l’ultimo paese grosso prima della Cina ed è conosciuto come centro di smistamento degli oppiacei importati dall’Afghanistan. Si trova a 3600m slm, la temperatura media annuale è di 2° ed è circondato dal deserto. A Murghab non cresce nulla, le persone scaldano le case con lo sterco del bestiame essiccato, l’acqua è un bene raro e preziosissimo. Gli abitanti sono perlopiù kirghisi che adottano l’ora del Kirghizistan e non quella del Tagikistan, uomini scavati e silenziosi, profondamente tristi, scollati da qualsiasi entità governativa superiore, che sia il Tagikistan, il Badakhshan o il Kirghizistan. Le donne sono mute, indaffarate con la lentezza di una depressione galoppante. Nascere a Murghab dev’essere una maledizione, eppure nel cortile di ogni casa corrono bambini dai capelli arruffati. Non ne ho mai visti di così silenziosi in vita mia, quasi il luogo li educasse a osservare la mestizia soffiata dalla piana tra i vicoli fangosi della città.

A Nazira invece potevo chiedere molto di più, ma non mi avrebbe detto nient’altro. Aveva assaggiato l’Occidente, ma ormai era tornata a casa sua, nel Pamir. Di spose del Pamir ne ho incontrate molte, ma non ne ho conosciuta nessuna. Ognuna si chiudeva in un muro invalicabile, che nessuna spiegazione ha veramente scavalcato. È uno dei misteri che non capiremo mai, perché siamo cresciuti all’Ovest. Io però lo osservo, lo registro, e mi lascio sfiorare dai pensieri.

Sul Pamir ho scritto anche nel mio libro Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici

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