Appunti dalla Transiberiana. Storia di un vagone pieno di operai di un’enorme raffineria siberiana e di un ragazzo di nome Vitaminka

Pubblicato il 16 Gennaio 2020

Scritto da Eleonora

Che ogni addio sia sempre un po’ uno strazio è risaputo. Denso, sì, ma alla fine penoso e con quella punta di imbarazzo che non riusciamo mai a levarci di dosso, neanche in Russia. Misterioso e bistrattato è invece quel brevissimo intervallo di tempo tra lo strazio dell’addio e la sorpresa di scoprire cosa si trova nel vagone. Pochissimi secondi, forse, in cui è impossibile ricordarsi a cosa stavi pensando. Si salgono i gradini (altissimi, strettissimi), c’è l’attimo di tensione del controllo biglietto e passaporto, la decodifica dell’assegnazione del posto, in genere bofonchiata a bocca aperta insieme a una cicca dalla giovane provodnitsa del tuo vagone. L’anticamera tutta metallica, che dà sempre l’illusione di trovarsi in un vagone merci, il corridoio strettissimo dove i più attenti sentiranno già che odore ha il bagno, un occhio al samovar (che spesso la dice lunga sull’età anagrafica del treno). Pochissimi respiri, la testa è sempre impegnata a fare tutto giusto e non perdere niente nel trasbordo. Poi arriva: si scoprono le carte, si guardano in faccia i primi compagni di platskart, ed è tutto un trattenere il fiato fino al proprio posto assegnato. È in quel momento che si aprono le scommesse su cosa succederà.

Alina e Zhenya mi salutano dal finestrino facendo smorfie. Ai russi piace venirti a prendere in stazione, accompagnarti fin dentro il vagone per assicurarsi che la situazione sia ok, che il letto sia pulito, che la provodnitsa non sia ubriaca. Che sia mezzanotte come che siano le due del pomeriggio. Piccole ingerenze nella tua sfera privata che lanciano segnali inequivocabili di cura e affetto. Questa volta però mi aspettano sulla banchina perché il treno è in partenza in un paio di minuti. Sfuggo agli abbracci e salgo i gradini all’ultimo, per un soffio, con appena 27h di treno davanti.

Chiamo Sherpa poco prima che il treno dia la leggera scossa che segnala ogni ripartenza, mentre non sono neanche entrata nel famigerato e strettissimo corridoio. Condivido con lui quei secondi indecifrabili di scatola chiusa, ma con una mano già sul coperchio, e mi auguro davvero che questa volta non ci siano ubriaconi a bordo, perché di avventure in quel senso ne avevo già avute pochi giorni prima.

Era un poveraccio di Achinsk che è stato sbattuto giù dal treno, nelle braccia di un’ancora più povera moglie, dopo esser stato recuperato addormentato in bagno. La stessa persona che teneva la bottiglietta di plastica riempita con la vodka sotto il cuscino e che mi aveva chiesto un ritratto, diceva, “così il mondo vedrà – come un uomo non deve essere”.

Lo Yenisei a Krasnoyarsk, Siberia, Russia

Nel corridoio c’è un silenzio irreale. Quasi tutti dormono. Inusuale, anzi, è forse la prima volta che mi capita in decine e decine di treni presi. Ma soprattutto, non ci sono né donne né bambini e questo è ancora più strano, considerando che in genere d’estate certi vagoni sembrano asili nido. Sono tutti omoni di mezza età, le pance immense e tese che sbucano dalle polo a righe blu e azzurre, strizzate dai cinturoni di cuoio. Mentre cerco il mio posto districandomi in una giungla di piedi e mani che penzolano ai letti, l’unico sveglio tra i primi posti mi guarda sconsolato dietro il suo occhio nero, il mento lunghissimo e una maglietta azzurra che lo fa sembrare ancora più smunto.

Anche i miei vicini di platskart sono tre omoni addormentati. E russano senza contegno.

Appoggio le mie cose, tranquillizzo Sherpa e lo saluto prima che cada la linea. Faccio per voltarmi a guardare dove finisce Krasnoyarsk, quando un ragazzo dal viso solare e un po’ rovinato da qualche incidente sbuca dal nulla e decide di trasferirsi da me, con un grosso pacco di instant noodles appena innaffiati di acqua bollente.

– Privet novinka, benvenuta tra noi. Come ti chiami?

Il lungofiume di Krasnoyarsk

In una fiera di Voi, ragazza mi possiate scusare, salve e La ringrazio, per salutarmi tutto sorridente con un misero ciao ultima arrivata al primo approccio devi proprio essere uno scaricatore di porto. (Oppure un operaio dell’NPZ).

È sfacciato, ma ha un che di innocente, quasi infantile. Rispondo senza pensarci che mi chiamo Eleanora, che ormai per comodità pronuncio alla russa. Visto l’ambiente da caserma in cui mi trovo, realizzo in tempo zero di aver fatto una sciocchezza. Alina chiacchiera sempre con tutti, ride tantissimo, ma inventandosi ogni volta un nome diverso. Oggi Masha, domani Katya. La fa sentire più al sicuro. Per me era troppo tardi e mi ero bruciata come un’idiota tutte le mie vite immaginarie da Olga o Irina.

Vitaliy mi guarda con occhi enormi e grigi, anche molto profondi. Non ha la fisionomia tipica slava, ha un che forse di mediterraneo o balcanico. È davvero un bel ragazzo, ma ho la sensazione che non mancherà molto perché si trasformi in qualcosa di molto più simile alla fauna che lo circonda. Mi parla a ruota libera e io gli fisso la piccola cicatrice sul sopracciglio. Chissà cosa gliel’ha scavata. A un certo punto si ferma basito.

– Davvero non sai cos’è l’NPZ?

Sto giocando con cautela, devo soppesare ogni parola o sarà meno divertente. Rispondo con sufficienza che no, non ne avevo mai sentito parlare.

Attacca con un fiume di gesti entusiasti, è radioso e i suoi denti brillano su un viso abbronzato. Smetto di seguirlo ma lo lascio fare, quasi in estasi tra racconti, battute, mimo di chissà che cosa. Ormai lo so: è il momento giusto per calare la carta vincente.

– Ehi, parla piano perché non sono russa e non capisco tutto quello che dici.

Ragazzi sul lungofiume di Krasnoyarsk, Siberia, Russia

Ma cosa dici. Bliiin, non ci posso credere. Solita tiritera: di dove sei, di dove non sei. Gli faccio sudare la risposta, compiaciutissima, ma con una punta di sadismo, senza staccargli gli occhi di dosso. Vitaliy è deliziato ed entra nel gioco con decisione. Mi osserva divertito, come se dovesse vincere un miliardo di rubli per la risposta giusta. Strizzo gli occhi per confonderlo, ma ci vede lungo e non è stupido. Lo sa che no, non sono “di lì”.

Novinka, lo so che sei europea.

No, no, non ispanka, ma italyanka. È una parola magica: d’improvviso il treno si anima. Italyanka? Ci raggiunge Andrei, che si materializza al mio fianco col suo occhio pestato a sangue, il gomito sulla mia spalla, pronto a sparare Lasciatemi Cantare a tutto volume dal suo cellulare dell’anteguerra. La soave melodia del Cutugno risveglia i compagni dal torpore e il treno sembra muoversi a ritmo, tra parole inventate, l’euforia con l’attacco maggiore di buongiorno Italia buongiorno Maria, applausi e standing ovation. Era la prima volta che cantavo Lasciatemi Cantare nella mia vita. Ma a loro questo non l’ho detto. È partita una festa che ha lavato via ogni timore e i visi del vagone si illuminano, rubicondi, in sorrisi senza denti e tatuaggi improponibili sul collo.

Dopo il corteo di benvenuto Andrei, ufficialmente autoinvitato a cinque centimetri di distanza da me (prego!), per prima cosa si scusa per l’occhio nero: sai com’è, son cose che succedono. Ma noi siamo persone tranquille, davvero. Solo che… Cose da uomini.

Scherza con Vitaliy sull’NPZ, regina di qualsiasi frase pronunciata da loro, e piano piano tutto inizia ad assumere un senso. Tutti i biglietti del platskart sono stati acquistati in massa da una squadra di operai di un enorme impianto petrolifero che c’è ad Angarsk, ultima città grande prima di Irkutsk, sul fiume Angarà (da cui prende il nome). L’NPZ, appunto, nome cognitivamente processabile di un ben più lungo neftepererabatyvayushchii zavod.

Ne parlano con orgoglio, la loro zavod è famosa, importante! Tra le più grosse della Siberia! Macché! Di tutta la Russia! Ma ero davvero sicura di non conoscerla? Perché la zavod è tutta la loro vita. Vita a turni massacranti, tra le 12 e le 15 ore continuative, ma solo per mezzo mese. Poi si torna a casa, da famiglie, mogli, fidanzate. Ad ogni domanda che faccio probabilmente realizzano la vastità della mia ignoranza quanto a raffinerie petrolifere siberiane. In lingua russa, poi!

– Ma devushka, tu non sai che i lavori vanno fatti in pochissimo tempo. 24, massimo 48 ore.

Sono lavori quasi sempre di emergenza, non ci sono pause ma solo sostituzioni. È per questo che il vagone sembra in preda a una narcolessia endemica: sono solo molto stanchi, tutto qui. E un po’ alticci, sì, ma quello è normal’no.

Mi fanno vedere i video che girano dentro gli impianti e dai letti in alto qualcuno scherza che siano segreti statali da non rivelare a una spia straniera come me. Nel video urlano tra loro, sputano a terra, un Vitaliy irriconoscibile dentro maschere, tute e caschetti infortunistici filma sotto di lui una voragine profonda forse un centinaio di metri e riempita di tubi, cavi, strutture ed enormi serbatoi. Mi spiegano tutto con entusiasmo: guarda la turbina che sta lì dentro, la vedi quella grossa vasca? È da lì che arriva il petrolio. Qui stavamo smontando e rimontando un enorme tubo per riparare una giuntura. Era un lavoro di massima precisione da fare in sole 12 ore! Sono assediata e sprofondata in un tunnel senza fine di tubi, ingranaggi, pompe e chissà che altra diavoleria petrolchimica. Dopo ogni video mi fissano trepidanti, in attesa di una reazione, che in russo non è granché più articolata di un vau o un bozhe moi. Mi spiegano anche come funzionano i loro caschetti ammortizzati, me ne fanno provare uno. È un lavoro pericoloso, ma è questo il bello. Si sentono importanti. Lo sono per davvero, in realtà. E come ne vanno fieri.

Krasnoyarsk, Siberia, Russia
Krasnoyarsk, Siberia, Russia

Andrei torna nel suo scompartimento. A dopo, mi dice, e rimango sola con Vitaliy mentre tutti sono tornati a dormire. Si sporge verso di me dal tavolino senza scollarmi gli occhi di dosso. Mentre io guardo distrattamente il paesaggio nebbioso che sfuma via, lui si rigira tra le mani una penna dell’RZhD che ha appena comprato dalla provodnitsa per centotrenta rubli, dopo una estenuante e lentissima presentazione di ogni oggetto in vendita dal suo cestino di vimini.

Fisso la penna con interesse, per non guardare lui e non sapendo cosa dirgli, e Vitaliy me la regala senza esitare. Accetto senza meditare la scelta, e mentre stringo la penna tra le mani sento che è l’inizio della fine.

Vitaliy ride, ride sempre. I colleghi, che poi sono i suoi amici anche se molto più grandi di lui, lo chiamano Vitaminka. Mi chiede di tutto, ma soprattutto di dirgli qualcosa in italiano, perché sono la prima italiana che incontra nella sua vita. È scandaloso che parli russo. È scandaloso che parli anche italiano. Come si dice “Vitaminka” in italiano? Si accascia dal troppo ridere, urlando Vitaminaaa a tutto il vagone. E poi vuoi mettere, abbiamo la stessa età!

Classe 1994 anche lui. Io neolaureata in linguistica, lui operaio matricola dell’NPZ. Non esattamente il più roseo degli inizi, ma a Vitaminka piacciono le sfide. Entriamo in un vortice di domande, confronti, scoperte entusiasmanti da nuovi compagni di banco delle medie. Ma dai, anche a te piace il borsch! E i bliny li hai assaggiati, vero? Anche Vitaminka è marzolino, più grande di me di soli 20 giorni. Gli mostro la data di nascita sul passaporto. Non può crederci. Spalanca un sorriso e si passa le mani sui capelli cortissimi, lasciandosi cadere sullo schienale della panca.

– Elya, è destino.

Mi sento in un videoclip sgranato e slavato delle hit pop della Britney Spears postsovietica. Mancano solo i colori fluo, i banchi di scuola e i codini e poi sì, ci siamo perfettamente.

Si chiacchiera un po’ del più e del meno, ma dopo poche frasi Vitaminka scende al dunque. Ce l’ho il marito? No, non il fidanzato: il marito. Ché io a 25 anni sono in scadenza: in Russia avrei due figli, un divorzio alle spalle e un nuovo marito.

Lui ha già notato tutto: non ho l’anello al dito (e quindi ho molto meno raggio per le bugie). Ma che bello mentire in libertà con un sorriso, col suo sguardo fisso e i suoi da, konechno, quando sa benissimo che stai mentendo.

E così noi siamo sposati da un anno, una cosa piccola e modesta (solo 30 invitati), ma no, abbiamo scelto di non usare la fede perché non era importante per noi. Sai, in Europa siamo strani, con tutti quei matrimoni omosessuali e libertà che abbiamo nessuno segue più la tradizione. Ci piacciono le cose semplici, ho detto. Non credo abbia creduto a mezza parola. D’altronde ho avuto poco tempo per preparare un ricamo come si deve. Bugie o non bugie, i suoi occhi non smettono di brillare.

Mi dà appuntamento a cena, un pacco noodles istantanei Doshirak insieme. Ok?
Davai.

Mi saluta con l’occhiolino prima di scivolare più avanti di un paio di scompartimenti. Vorrei stendermi e fissare il soffitto per una mezz’ora, metabolizzando il mio ingresso in Siberia, ma il posto davanti a me è ancora libero ed ora in effetti è il turno di Andrei, quello con l’occhio nero, che deve venire a conoscere in privato la novinka, l’ultima arrivata. Dev’essere il PR dell’NPZ perché è l’amico di tutti, li chiama con nomignoli affettuosissimi, come se si conoscessero da una vita. Mi porta un bambino cicciottino con gli occhi pigri e gli occhialetti di plastica, ovviamente un Sasha che diventa subito un Saniok, che mi molesta lanciandomi addosso quei mostriciattoli spiattellabili di gelatina. Andrei se lo strapazza un po’ mentre io lo incenerisco con lo sguardo.

– Ci si aiuta tutti nel platskart, sai.

Rimanda Saniok da dov’è venuto e offre una mela alla babushka appena arrivata nel posto di fronte al mio.

Tra Krasnoyarsk e Irkutsk, Siberia, Russia

Ha una faccia da scaricatore di porto, Andrei, l’alito pesante che sa di vodka e i denti che sembrano dei tentacoli protesi verso l’esterno, ma la sua passione, mi confessa con un sorriso timidissimo, sono cagnetti e gattini. Adotta quelli di strada. Ad Angarsk non ci sono canili e a nessuno gliene frega niente. D’inverno fa freddo e sopravvivono solo grazie ai tubi dell’acqua calda, dormono lì sotto, sperando che qualcuno in stazione ogni tanto gli lanci del cibo. Li porta a casa e li tiene da lui finché non arriva la primavera, mi racconta con emozione scorrendo le foto di lui in pigiama sommerso di cagnetti sul lettone tra pareti di un beige triste.

Con Andrei entro più a fondo nella vita di cantiere. Il cantiere petrolifero è immenso, le miniere a cielo aperto dove a volte vanno sembrano dei crateri postatomici. La paga non è male, ma è su queste spalle che la Russia ha ancora potere contrattuale nel mondo. Oltre i 400€ al mese perdono competitività, mi dice. Questa notte dormo con le facce di chi costruisce lunghissimi oleodotti e vive tra miniere a cielo aperto, tubi, dinamite, con una solidarietà maschile mai vista altrove. Entrare nell’NPZ significa trovare una famiglia che ti vuole bene e che si prende cura di te per come sei. Tutti si conoscono, nel platskart si scambiano i letti, si assaggiano il cibo senza chiedere, perché tanto loro sono i miei bratya. Sono sempre insieme, “ma non stiamo insieme”, ride Andrei.

Denis si rianima dal sonno etilico. Ha gli occhi sottilissimi e una scritta enorme tatuata sul collo. Chiedo ad Andrei che cosa significa quel… DEN.

– Elya, è il suo nome. Il suo lavoro è duro e pericoloso. Se muore vuole che lo riconoscano per riportarlo a casa.

Da sinistra: il master, io, Vitaminka, Kolya e Zhenya

Maksim mi augura buon appetito con un sorriso, Misha fa su e giù per il corridoio con la polo rossa bianca e blu con l’enorme scritta Rossiya, un po’ alticcio forse, ma d’altronde in questo platskart chi non lo è. Dima appena passo scuote la testa al ritmo del pop orrendo che sta ascoltando in un sorriso ebete, poi scatta prontissimo ad aprirmi la porta del bagno, con riverenza che neanche per una zarina; è di gran lunga il più brutto di tutti, con uno spessissimo monociglio che ricorda il velcro delle Superga con cui facevo ginnastica alle elementari. Addirittura non voleva entrare nella foto di gruppo che abbiamo fatto poco prima di arrivare ad Angarsk, quando il vagone doveva scendere in massa per tornare in fabbrica.

Dopo il bagno proseguo la mia sfilata, unica ragazza del vagone, verso l’area samovar, per farmi il mio santissimo tè. Mi raggiunge Kolya, che si offre di portarmelo al tavolino.

Si presenta radioso: Nikolaj, ma per tutti Kolya. Ha una camicia azzurra color carta da zucchero, sulla classica canottiera bianca sovietica capace di sabotare qualunque appuntamento romantico dopo il primo minuto, che accomuna la Russia al nostro Sud con un pericolosissimo asse della canotta Angarsk – Agrigento. Un po’ ingobbito, sui 35 portati male e con un bel buco tra gli incisivi, mi tende una mano rovinatissima dal lavoro stringendo la mia con entusiasmo. Non so bene come, quando o perché, ma riesce a strapparmi il numero di telefono. Da allora, periodicamente, mi sorprende con ritratti iconici in cui è intento a grigliare shashliki a torso nudo, accompagnato dal solito eloquente privet.

Sono l’unica ragazza e l’unica under 30 del vagone, più due babushki con i nipotini che sono salite a petà percorso. Sono passate poche ore e mi sento parte di una grande famiglia dove la parola d’ordine è solidarietà. Il master dorme in alto accanto a me, occhiali da sole sulla fronte pelata, solito pancione teso come un tamburo e una smorfia in volto accompagnata da una mano cadente verso il letto di sotto. È chiaro che il capo è lui, ma mentre dorme è Andrei che gestisce tutte le relazioni all’interno del vagone, si occupa delle presentazioni, dei cambio posti e di salutare i nuovi arrivati.

Quando il capo si sveglia, Andrei torna al suo posto a chiacchierare con Denis, che è così ubriaco che continua a far cadere la sua tazza metallica vuota appoggiata sul poggiapiedi in un loop ipnotico. Scende senza grazia, si siede su un letto qualsiasi e pronuncia solo, con voce cavernosa: “moi tapochki”, le mie ciabatte. Io, la neo arrivata babushka e le due bambine ci guardiamo impaurite e iniziamo a cercarle affannosamente senza che lui si muova di un millimetro ma niente, deve averle prese Maxim per andare fuori a fumare.

La provodnitsa, una ragazza giovane che probabilmente fa la stagione sulla Transiberiana, torna dal bagno urlando chiiii è stato a fumare in bagno?

Scoppiano tumulti nel vagone, volano accuse: tsigany! Bandity! khuligany! Chi sarà mai stato?

La provodnitsa si ritira nel suo stanzino tra le risate generali.

È sera e non ho rispettato l’appuntamento per i noodles istantanei che avevo promesso a Vitaminka. Ho mangiato da sola chiacchierando con la babushka, una siberiana con fiere origini tedesche, e giocando con le sue nipotine, e poi sono andata a dormire, mentre la nonna allestiva tendaggi per proteggere le bimbe dagli sguardi del vagone. Burbera e arrogantella all’inizio, si è aperta in poco tempo, dopo aver avuto sufficienti prove della mia bontà. Mi confessa l’amore sconfinato per le bambine, con tanto di lacrimuccia agli occhi. Le sta riportando a Irkutsk, dalla madre, ma non è pronta a lasciarle. Le bacia con un amore mai visto, chiamandole “caramellina mia”, “zuccherino mio”.

Da sotto le coperte sento qualcuno che mi solletica i piedi e mi sveglia con sussurri. È Vitaminka, i suoi occhi sono enormi anche al buio. Con un sorriso enorme cerca di dirmi qualcosa che non capisco, mi chiama per andare chissà dove. Non faccio in tempo a svegliarmi dal coma profondo per cacciarlo che la babushka si sveglia di soprassalto, si spaventa e lo manda via a male parole, con l’aggressività da mamma chioccia che solo le donnone russe sanno avere. Sveglierà le bambine, vai a dormire, cosa cerchi qui da noi?

Avrebbe lasciato i due letti alle bimbe, senza chiudere occhio tutta la notte, vegliando su di loro e sulle pesanti tende che le proteggevano.

Al mattino Angarsk era la fermata prima di Irkutsk. Faccio colazione con gli operai, mentre la babushka ha ufficialmente adottato Andrei (prontamente diventato Andriukha) nel nostro scompartimento. Il master ci raggiunge e si rivela il vero leader silenzioso di quell’esercito di omoni improbabili. Non parla mai, ma quando parla nessuno osa fiatare. Le domande più rilevanti spettano a lui. Per esempio l’insinuare che devo provare di non essere una spia. O il come fai a parlare tutte quelle lingue. È perché sei una spia. Si lascia andare in un pallido ricordo di sorriso quando chiedo a Dima, quello brutto che mi dice che non vuole comparire in foto, di farci una foto con la mia macchinetta analogica.

Manca poco ad Angarsk e Vitaminka mi trascina via dalla combriccola per mostrarmi dal finestrino tutte le ciminiere dell’NPZ, che la ferrovia sfiora sul lato Nord. Un tour guidato serissimo e lunghi silenzi, con il solito strazio dell’addio che sale piano piano. È il momento dei saluti. Mano sul cuore, inviti per grigliate estive e le promesse di rivederci, prima o poi. Vitaminka mi abbraccia a tradimento.

– E comunque lo so che non sei sposata. È destino. Io te l’ho detto.

Io, la babushka e le bimbe li salutiamo dal finestrino. Non c’è nessuno ad aspettarli, sono solo loro su una banchina semivuota, e i loro piccoli borsoni neri. Alla babushka scappa una lacrimuccia. AndriukhaCiao ciao, Andriukha…

Vitaminka mi lancia un ultimo sguardo serio senza dire nulla, poi si gira per l’ultima volta. Lo seguiamo dal finestrino, salutiamo tutti di nuovo, proprio come dei parenti. Stiamo stati insieme solo 27 ore eppure è di nuovo un strazio, quel solito strazio. Fino al prossimo intervallo. E alla prossima scatola chiusa.


A presto,
Eleonora

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11 commenti

  • Che bel racconto, un po’ siamo saliti anche noi sul quel treno. La scorsa estate, per la prima volta, sono andata in Russia, è stato solo un assaggio ed è rimasta la voglia di conoscere, leggere, viaggiare ad est. Complimenti per questo sito, originale e ben scritto, spero in futuro di poter seguire qualche tuo suggerimento di viaggio. Grazie

  • Che bello Ele. Sono questa condivisione e immersione che danno profondita’ al viaggio per me 🙂

    • A

      È vero. Se non ci fossero viaggiare sarebbe un’attività di svago come tutte le altre e non un’occasione di accrescimento personale. Ma è la mia visione che è profondamente “umana”. Se i treni fossero vuoti anche la Transiberiana sarebbe noiosa, credo 🙂
      Un abbraccione Annika, grazie!

  • Sara Cerioli

    A me fai tremare il cuore ogni volta. Sono anche io su quel treno – quanto mi manca per tutti i mesi che devo aspettare di riprenderlo! E poi, solo fino a Nizhniy Novgorod… Ma le emozioni che trasmetti con le tue parole, i ricordi che mi fai riaffiorare. Grazie davvero, bellissimo leggerti e seguirti, sempre 🙂

    • A

      Grazie Sara ♥ contenta che ti sia piaciuto!
      La cosa che ancora non riesco a metabolizzare è che ogni treno che prendi è davvero un’esperienza così emozionante. Qualunque sia la durata o la destinazione, gli incontri sono sempre fenomenali.
      Tieni duro che presto arriverà anche la tua tratta fino a Nizhny!
      Un abbraccio,
      Ele

  • è molto bello sentire queste storie raccontate da te che le hai vissute doppiamente, potendo conversare con loro nella loro lingua. grazie per averle condivise, è stato un po’ come salire su quel treno con te

    • A

      Grazie Lise ♥ è bello pensare che i racconti abbiano questo potere spazio-temporale!
      A presto, un abbraccio!
      Ele

  • “…ovviamente un Sasha che diventa subito un Saniok”

    Eleonora,

    considerami pure già in fila per comprare la raccolta di racconti brevi che prima o poi pubblicherai. Credo che tu sia riuscira a trasmettere perfettamente la sequenza di stati d’animo di quelle 27 ore, e a me sembra quasi di averle vissute al posto tuo. Brava!

    E relativamente alla questione che hai sollevato sulla pagina Instagram: hai ragione! Quanto sarebbe bello, a volte, “salvare con nome” e vivere per un po’ una vita che non è la nostra, per poi tornare indietro? Zittire la babushka-angelo custode e seguire Vitaminka! Ma solo per finta… una demo! 🙂

    P.S.: Chissà, invece, i tuoi personaggi come raccontano questa storia. Ci hai mai pensato?

    • A

      Sarebbe bellissimo, Johanna!
      Sai quei libri con le “scelte” da fare che poi portano a esiti diversi della storia? Io li leggevo tutti. Sarebbe impagabile poter vivere così ed essere contemporaneamente più persone. Sì, zittire la babushka-angelo custode e seguire Vitaminka per una demo 😉 (mi hai spezzata dal ridere!)

      Mi chiedo sempre dal loro punto di vista come racconterebbero la storia. Di sicuro sarebbe tutt’altra cosa, perché loro in quel momento erano nel loro “normale” e l’elemento strano ero io, non il contrario! Mi meraviglia anche quando sento la stessa storia che ho vissuto anche io raccontata dai miei amici. Quanti dettagli notano a cui io non avevo assolutamente fatto caso, che prospettiva diversa! E sono viaggiatori italiani anche loro, figurarsi un operaio dell’NPZ di Angarsk cosa direbbe.

      Comunque grazie per il tuo commento, mi ha scaldato la serata.
      Un abbraccio e a presto! Speriamo prima o poi esca davvero un libriccino 🙂
      Elya

  • Meraviglia Ele. La fantastica atmosfera dei treni russi è difficilissima da spiegare a chi non l’ha provata, ma ci sei riuscita perfettamente!

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