La Romania per me è stata soprattutto Sibiu, una piccola e tranquilla cittadina della Transilvania, dove tedeschi (protestanti), ungheresi (cattolici), rumeni (ortodossi) e gli ultimi ebrei vivono fianco a fianco da secoli. Mi ha accolta, tramite CouchSurfing, Melinda – una madre empatica, occhi enormi e capelli nerissimi. Il suo cognome la tradisce: è un’ungherese di Transilvania.
[Henek, ungherese] Era nato ed abitava in una fattoria, in Transilvania, in mezzo al bosco, vicino al confine rumeno. Andava spesso col padre per il bosco, alla domenica, entrambi col fucile. Perché col fucile? per cacciare? Sì, anche per cacciare; ma anche per sparare ai rumeni. E perché sparare ai rumeni? Perché sono rumeni, mi spiegò Henek con semplicità disarmante. Anche loro, ogni tanto, sparavano a noi.
Primo Levi – La Tregua, 1963
Queste sono quattro piccole storie di Sibiu e, in realtà, sono la parte che amo di più dei viaggi. Un freddo inaspettato sul finire di Marzo, i primi alberi che osano qualche gemma, un tè caldo e una donna con una vita da insegnarti: e che comincia dalla zuppa di lenticchie con paprika.
Sibiu I. Staccarsi dalle cose
Una volta una ragazza di nome Amanda mi regalò una collanina con un sole argentato. Se la staccò del collo e mi disse “se ti piace te la regalo”. Rimasi scioccata e accettai.
Stavo mettendo su un tè e chiacchierando quando Melinda mi sfiora un orecchino.
“Ne avevo un paio uguale”, mi dice, “ma l’ho perso. La pietra era rossa… incredibile però, incredibile. Sono identici”
“Chi te li aveva dati?”
“Erano un’eredità della mia nonna ungherese. Aveva lasciato un anello a mia madre e io avevo gli orecchini con quel motivo. Bellissimi.”
“Tienili, te li regalo. Davvero. Se ti piacciono te li regalo”
“Ma no, non posso accettare”
“Dai, tienili. Non ne ho bisogno. Ne ho centomila diversi a casa”
Quanto è difficile separarsi dagli oggetti. Quanto sono tentata di quantificare ogni cosa, contare i centesimi, calcolare il risparmio, la perdita, la truffa.
Quanto è dura regalare qualcosa, separarsene per sempre. Quanti ripensamenti, rimorsi.
A ogni viaggio che faccio il mio zaino è più leggero. Meno vestiti, meno oggetti. Si può vivere con niente. E più torno a casa leggera, più mi sento piena dentro.
Non scriverei questo post se fosse facile: sono ancora qui a tormentarmi per quei dannati orecchini. Che agonia. E per cosa? Mi piacevano, certo. Erano molto belli, fini ed eleganti: argento e pietra verde.
Ma i motivi per tenerli sono tanto quanti quelli per regalarli. Sono passati undici anni da quando Amanda mi ha regalato quel sole. Ce l’ho ancora, e non mi sono dimenticata di lei.
Esercizio: staccarmi dalle cose, sfiorarle con un volo leggero, accarezzarle e non tenerle. Tenere le persone, quelle sì. Stringerle quando ci sono, prendersene cura in ogni modo, sospirare quando sono lontane.
Sibiu II. Melinda, un’ungherese di Romania
Melinda è alta e molto bella, occhi grandi scuri. «Quando ero ragazza avevo i capelli nerissimi e lunghi, pelle olivastra. Mi scambiavano tutti per un’ebrea». Sussurra una lingua di parole lunghe e leggerissime, con suoni sibilanti, dolcemente incomprensibile alle mie orecchie: è ungherese. Ungherese di Romania.
Ho le mani gelate e un tè bollente in mano. «Melinda, raccontami degli ungheresi della Transilvania. Ti ascolterò»
«È stano non sapere da dove veniamo, noi ungheresi. Eravamo i nomadi dei fiumi nelle grandi steppe dell’Asia». Valicando gli Urali hanno iniziato a camminare con i finnici, un popolo diverso, che ha seguito il cammino delle renne fino al Baltico, e con cui hanno condiviso alcune caratteristiche della loro lingua. «Noi abbiamo scelto i Balcani e il Danubio». Ungheresi e finlandesi condividono saghe, miti e simboli di quel cammino insieme nelle piane della Russia. Quello che li distingue è però il tulipano, rappresentato in moltissimi motivi di arte popolare, nei tessuti e nelle ceramiche. «È il simbolo anche dei turchi, perché si dice vengano dalla stessa nostra terra».
In Romania più del 6% degli abitanti è ungherese. In alcuni centri della Transilvania a volte anche oltre il 50%. Per secoli si sono odiati e amati, vivendo fianco a fianco. L’assenza di reali barriere geografiche, i grandi regni e imperi sovranazionali del passato, le invasioni e la vicinanza hanno da sempre favorito il mescolarsi di popoli molto diversi. Ed è la norma in gran parte dell’Est Europa. «Siamo una minoranza in Romania. Molti di noi ormai parlano male o con accento romeno, stanno perdendo la lingua. Ma pensa che in altre comunità più isolate gli ungheresi hanno proprio dei tratti centro-asiatici».
Melinda è una madre ed educatrice fantastica. Ha insegnato a leggere e scrivere in ungherese ai suoi bimbi perché a scuola non lo studiano. Parla, oltre a ungherese e rumeno, tedesco, inglese e francese. Quando mi racconta le leggende degli ungheresi le brillano gli occhi: «In un certo senso mi affascina non sapere da dove viene il mio sangue. Guarda Zaia: è nata biondissima». Essere una minoranza in una regione storicamente abitata da decine di minoranze (tedesca, rom, ebrea etc.) vuol dire che puoi contare solo su te stesso e sui tuoi figli per far sopravvivere la tua cultura. E se non lo fai la lasci morire.
In realtà avevo già sbirciato nella sua libreria e avevo trovato l’Iliade e alcuni libri di Umberto Eco tradotti in ungherese… Ma ascoltare storie e racconti mi è sempre piaciuto da matti.
Sibiu III. Melinda, una vera mamă
Melinda non l’ho dimenticata. E’ stata una delle più grandi educatrici che abbia mai incontrato nella mia vita. Una ventina d’anni di differenza, eppure in un battito di ciglia ci siamo ritrovate così affini, davanti a un tè alla vaniglia e prugne e alle sue sigarette di nascosto dai bambini. M’ha insegnato così tanto.
Zaia, la piccolina, è una specie di miracolo. Gli occhi grandi e tondi, come hanno certe genti dell’Iran, del Caucaso o della Turchia, i capelli nerissimi, il naso lievemente ricurvo e il corpo slanciato di Melinda non hanno lasciato nemmeno una traccia sulla pelle candida e i capelli quasi bianchi della piccolissima Zaia.
Zaia, nome insolito. Lo stesso di una ragazza misteriosa che Melinda incontrò a Budapest, al primo viaggio fuori dalla Romania.
«Ma guardala: chissà cosa ci portiamo nel sangue noi ungheresi, chi siamo, e da dove veniamo»
Melinda è empatia. È la prima cosa che mi ha detto di sé: indossa ogni dolore come fosse il suo, e nella vita è finita a riempirsi la casa di bimbi orfani, lasciando che la chiamassero ‘mamă’, lavandoli e nutrendoli come fossero i suoi, di figli.
«’Tutto questo è sbagliato, e lo sai’, mi ha detto mio marito qualche mese dopo. Io non sapevo dire di no. Ho dovuto cambiare lavoro, o il mio cuore non avrebbe sopportato oltre»
Ora fa la traduttrice, parla cinque lingue. Da come guarda Zaia capisco cosa intende – occhi profondi, generosi, di chi è nato per dare agli altri.
Spiega a Zaia che la pentola dove bolle la zuppa scotta: è meglio non toccarla, o ci si fa male. Zaia annuisce come fanno i bambini, lasciando a intendere che non gliene frega niente e che deve testare di persona prima di accogliere questa verità universale. Melinda coglie al volo. Dopo qualche minuto mi sorride, si alza e finge di andare a cercare qualcosa nella credenza in alto, seguendo le manine bianche di Zaia con la coda dell’occhio. Sto al gioco, e il mio sguardo affoga nella tazza di tè.
La bimba scivola in punta di piedi davanti ai fornelli. E’ il suo momento: sorveglianza zero. La pentola della zuppa incombe, maestosa e rilucente. Alza l’indice e, tremante, la tocca.
Grido strozzato. Dissimula benissimo: Zaia è un’attrice vera.
Melinda la guarda piena d’amore. Zaia non confesserà mai, e non può reggere quello sguardo di madre che lo sapeva: corre via e sparisce.
Rido forte. Melinda, che cuore saggio! Che donna!
Sguardo d’intesa. «Vedrai che tornerà», mi dice.
Ed è tornata davvero, il giorno dopo, per sussurrare all’orecchio della madre che aveva ragione, le pentole sul fuoco scottano.
«E come lo sai, Zaia? Hai provato?»
«No. Me l’ha detto una mia amica oggi a scuola che ha provato»
«E si è fatta male?»
«Un po’, ma ha resistito. E tu hai mai provato?»
«No, mai. Me l’aveva detto una mia amica»
Sibiu IV. La piccola comunità tedesca
Gironzolando tra i primissimi meli in fiore del mio viaggio in Romania, sono incappata nell’immensa chiesa luterana evangelica di Sibiu – o, meglio, dovrei dire Hermannstadt. All’ingresso, vedo un cartello: messa-concerto gratuito per la stessa sera, il venerdì di Pasqua. Passione secondo Luca di Telemann (1681-1767) cantata da un coro e suonata con strumenti antichi. Bellissimo. Anche perché diciamocelo, non sono una fan delle festività religiose, ma sapere che in Italia tutti stanno festeggiando e in Romania gli ortodossi devono aspettare ancora una settimana mi fa un po’ strano. Inganno l’attesa perdendomi tra le piccole scalinate di Sibiu, i negozietti di vestiti usati, le piazzette appena riscaldate dal sole, le torri, le mille finestre piene di fiori. Poi il buio improvviso degli ultimi giorni di inverno e il suono delle campane dall’immensa torre: è tempo di andare. Mi siedo discretamente in mezzo ai fedeli, facendo in realtà finta di niente; tutti sono molto cordiali e mi salutano sorridenti, come se mi conoscessero da una vita. Hallo! Guten Abend!
Pazzesco. Questi qui parlano tutti tedesco. Sono tedeschi davvero. Incredibile, allucinante, non ci avrei mai creduto. E la messa è cantata e recitata in tedesco, ovviamente. Le persone prendono gli spartiti distribuiti per tutti e cantano leggendo a prima vista, in tedesco: che meraviglia! Mi cimento anche io e, cercando di fingermi il più possibile tedesca, canto a pieni polmoni divertendomi come una matta. Una ragazza fa cadere la mia sciarpa. Entschuldigung, mi dice. Trattengo una risata. Il concerto è lungo e molto intenso, mi piace davvero. Ma soprattutto mi sento dovunque fuorché in Romania. Potrei tranquillamente essere in un paesino di montagna in Baviera: tutto è luterano, tutto è germanofono, la gente ha occhi chiari e visi duri, chiaramente non rumeni né ungheresi. E questa gente è figlia dei figli dei mercanti tedeschi, i cosiddetti Sassoni di Transilvania, o dei difensori del regno d’Ungheria che si sono spinti fin qui nel XII secolo.
A concerto finito, mi gioco l’ultima carta nei miei giochi camaleontici: saluto il mio compagno di panca, che mi ha sentito cantare Telemann a piena voce, con un piccolo aufwiedersehen. Non si accorge di nulla, e mi ricambia tutto allegro: a presto, arrivederci, signorina, bis bald!
Libri consigliati in questo articolo
Primo Levi, La tregua: su Amazon, Libraccio, Feltrinelli e Mondadori Store
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8 commenti
Anonimo
Secondo me scrive divinamente e rende così bene il senso di amore per la mittel Europa e di nostalgia per il mondo perduto con la guerra fredda. Sicuramente in parte è romanzato ma ti lascia un ricordo indelebile (vedrai le note sulla lingua ungherese e il suo amore non corrisposto per lei! 🙂 ). Ha raccontato il viaggio in tre libri, in particolare “Tra i boschi e l’acqua” parla proprio di Ungheria, Romania e Balcani. Buona lettura!
Eleonora
grazie di cuore, aggiudicato 🙂
Benedetta
Hai letto P.l. Fermor? Ha scritto del suo viaggio da Londra a Istanbul a piedi, negli anni 30. Racconta proprio di queste regioni e delle vicende che hanno portato a questa incredibile miscellanea!
Eleonora
Ancora no, ma segno subito! Credo però di aver già sentito parlare del suo viaggio 😉
A presto e grazie,
Ele
Isabella
questa è le letteratura di viaggio che amo leggere.
hai il cuore negli occhi.
Isa
sandra
Ho qualche problema con il box commenti.. comunque nel caso cancella pure i doppioni 🙂
Bellissima Sibiu e le sue case con gli occhietti sui tetti!!!
Dopo Sighisoara una delle cittadine più belle della romania!
Eleonora
Verissimo, Sighisoara e Sibiu stupende e super accoglienti!
Un abbraccio
sandra
Anche a me è piaciuta un sacco Sibiu e le sue case con gli occhi sui tetti… molto suggestiva!
Credo, dopo Sighisoara una delle cittadine più caratteristiche viste in Romania.