Viaggio in Algeria, parte #1 (parte #2 qui)
Fotografie e diari di Marco Gironi
(10/08/2014 – 19/08/2014)
“Hai qualcosa da dichiarare? Alcol, sigarette, droga, denaro sporco? Te lo chiederò solo una volta”. L’alto e macilento poliziotto di frontiera mi lancia una severa occhiata intimidatoria. Rispondo con un “no” disinvolto, che tuttavia non deve averlo convinto.
Mi fa cenno di scendere dall’auto e, obbediente, apro il mio zaino. Osservo inquieto i gesti sicuri e meccanici del giovane che, dopo averne svuotato il contenuto su un tavolo, lo distende ed esamina. Al suo termine, mi rivolge uno sguardo privo di espressività, e senza perdere ulteriore tempo, mi accenna un: benvenuto in Algeria.
Ma facciamo un passo indietro. Sono le cinque del mattino a Tunisi, e il sole non ha ancora fatto capolino tra i bassi tetti di terracotta di Bab Al-Khadrah. Il sordo tonfo della porta che chiudo alle mie spalle sembra aver innescato come per magia il canto del Muezzin, che intona il richiamo alla preghiera notturna.
I miei ricordi corrono veloci a ritroso, ai miei primi giorni in questo paese. Rievoco i bui mattini del rigido inverno tunisino, e riecheggia nella mia testa l’intonazione della Salat al Isha, la preghiera che deve essere perpetrata da tutti i musulmani prima dell’alba. E ricordo divertito come puntualmente venissi svegliato, con un sobbalzo, dal preambolo dell’orazione, recitato con voce profonda e solenne dal Muezzin.
Allahu Akbar, Allahu akbar…
Le note vibranti della preghiera riecheggiano tra le stradine deserte e debolmente illuminate dalla luna. Percorro in silenzio le viuzze della medina, attento a schivare i numerosi rigagnoli di acqua putrida che le solcano. L’aria è impregnata dei forti odori sprigionati dai resti di cibo, diligentemente ammonticchiati ai lati di marciapiedi, anch’essi sudici.
…Sami’a Allahu liman hamidah, Rabbana wa lakal hamd…
Un anziano, sostenuto dal suo ricurvo bastone di legno grezzo, fa la sua improvvisa comparsa da uno dei numerosi voltoni di terracotta. Incede lentamente, il passo incerto e lo sguardo vigile fisso sul suolo.
Assorto nei suoi pensieri, sembra non accorgersi neanche della mia presenza. “Chissà dov’è diretto”, mi chiedo, mentre un primo tenue raggio di sole illumina timidamente i tetti delle abitazioni più alte.
…Assalamu aleikum wa rahmatullah.
Il sole è ormai affiorato tra gli edifici più alti di Avenue Habib Bourguiba, quando finalmente io e il mio compagno di viaggio Nasri troviamo un taxi disposto a portarci a destinazione, al di là del confine tunisino.
Mohammed è un basso e allegro taxista di Annaba, città costiera nel nord-est dell’Algeria, che guarda caso è dove siamo diretti. Ci racconta di aver attraversato la frontiera tante volte da averne perso il conto e, a riprova di ciò, ci sventola sotto il naso un passaporto stracolmo di timbri doganali. Scopriamo poco dopo che quello, in realtà, è proprio il suo lavoro: facendo da spola due volte al giorno tra la sua città, Annaba, e Tunisi, riesce a racimolare abbastanza da potersi permettere addirittura due giorni di riposo settimanali che, in un paese come la Tunisia o l’Algeria, sono considerati un lusso. E così, per la modesta cifra di venti dinari (poco più di otto euro), accetta di accompagnarci lungo il primo tratto della nostra avventura.
Dopo esserci lasciati alle spalle Bizerta, meritevolmente considerata la perla del Mediterraneo, giungiamo a Tabarka, ultima roccaforte tunisina. Avvolta in una umida e appiccicosa foschia, la città si rivela fin da subito nei tratti tipici e contraddittori di una città di frontiera: numerosi squadroni di militari armati sono spiegati a poche centinaia di metri da uno dei mercati neri più fiorenti di tutta la Tunisia; taniche di benzina vengono animatamente barattate per stecche di sigarette, mentre i più avventati si arrischiano alla vendita di hashish, appostati agli angoli delle strade. Vivaci bambini tentano invano di convincere i passanti a comprare i loro souvenir, rozzi assemblaggi di conchiglie e legnetti, mentre vispe signorone, stazionate di fronte alle proprie taverne, fanno a gara per rubarsi i clienti, attirandoli con gesti eloquenti e gridolini acuti.
Siamo tutti decisi a non perdere tempo e così, dopo esserci rifocillati, ci apprestiamo a percorrere i nove chilometri rimanenti prima di raggiungere la dogana. Con lo sguardo impaziente fisso sul limitato orizzonte offerto dalla strada sterrata che stiamo percorrendo, e che si inerpica sulle cime boscose dell’altipiano che divide i due paesi, vengo tutt’a un tratto invaso da un sentimento di smarrimento. Il battito accelera, alimentato dal timore che qualcosa possa andare storto. Ed ecco che finalmente, in lontananza, la sommità di un basso edificio bianco fa capolino tra i folti arbusti.

“Non devi assolutamente parlare arabo” mi ammonisce il taxista, parcheggiando l’auto. “Non devi dare nell’occhio, altrimenti è finita. Una mossa falsa e non ti fanno entrare…ma nessuno di noi ha intenzione di tornare a Tunisi, non è così?”. Annuisco, allarmato dal tono serio di Mohammed. “Non capita tutti i giorni che un biondino attraversi il confine via terra accompagnato da un algerino e un tunisino.
Ricordati, tu sei solo un gawri, un turista occidentale e nulla di più”. Ancora una volta annuisco, e mi avvio all’ufficio doganale accompagnato da Nasri. Osservo impaziente i gesti lenti e disinteressati dell’impiegato, un tozzo omone sulla cinquantina, mentre sfoglia il mio passaporto munito di visto.
“Qual è la ragione della tua visita?” mi chiede in un pessimo inglese. “Turismo”, rispondo. “E dove alloggerai?” Con un gesto rapido gli porgo la lettera di invito di una amica di Algeri, nella quale testimonia di prendersi carico di me durante il soggiorno; e le sue parole, garantite dal timbro del Comune di Algeri, sembrano convincerlo. “È fatta” penso, quando dal sottobanco estrae il timbro della Republique Algerienne Democratique et Populaire. Con un sorriso abbraccio Nasri, sollevato almeno quanto me, che a sua volta procede con il riconoscimento dei documenti. Il nostro compiacimento viene però immediatamente inibito quando il grosso uomo, con voce tranquilla, gli comunica che non avrebbe potuto proseguire in Algeria. Mai avremmo pensato che, tra i due, sarebbe stato proprio Nasri a causare problemi alla dogana: in quanto tunisino, infatti, per poter entrare in territorio algerino non avrebbe dovuto necessitare altro che un passaporto di valenza superiore ai sei mesi.
E così, increduli, chiediamo quale sia il motivo. “I cittadini tunisini di età inferiore ai 26 anni, se disoccupati, non hanno accesso al nostro paese” spiega a Nasri. E anticipando qualsiasi nostra reazione, aggiunge, con tono stizzito: “questa è la nostra legge, non posso farci niente. E ora non fatemi perdere tempo”. Fingo di non capire, e insisto, in inglese, che deve esserci una soluzione, che siamo giunti fino a lì da lontani, e che da solo non sarei stato in grado di proseguire il mio viaggio. “Se vuoi andare oltre, tu puoi farlo, ma il tuo amico se ne torna a Tunisi” replica con voce stentorea. Faccio per contestare a mia volta, ma vengo bruscamente minacciato di essere portato alla caserma doganale. Cerco lo sguardo di Mohammed, che in tutta risposta abbassa il suo, in evidente difficoltà. Le sue ammonizioni riecheggiano nella mia testa: “Non attirare l’attenzione… non parlare arabo…”.
Non trovando altri espedienti, “o la va o la spacca” penso, e mi rivolgo a lui in arabo: “Capisco perfettamente le sue ragioni, la prego però di capire anche le nostre: vivo a Tunisi, ma come potrà immaginare mi troverei in difficoltà da solo in un paese sconosciuto e tanto diverso dalla Tunisia. Le assicuro che siamo dei turisti”. Noncurante dello sguardo attonito dell’omone, evidentemente colto di sprovvista dal mio arabo, estraggo in tutta fretta la macchina fotografica dallo zaino di Nasri, mostrandogliela. “Non avremmo nessun motivo di mentirle, la prego, ci lasci passare”. Segue un attimo di silenzio, che pare un’eternità: l’adrenalina in corpo mi impedisce di abbassare lo sguardo da quello dell’ufficiale, mentre attendo la sua reazione. “Lahdha” è la sua risposta, “un momento”. Scompare dietro una piccola porta di legno, dalla quale riappare pochi istanti dopo seguito da un altro uomo.
A giudicare dal suo portamento ufficioso e dalla giacca tempestata di strani simboli, non può che essere un suo superiore, probabilmente il capo stesso dell’ufficio doganale. Il suo sguardo severo fa di colpo scemare ogni mia speranza di successo, finché, con una voce composta e abilmente celata di sarcasmo, mi chiede: “Milan o Inter?”.
Usciti dall’ufficio doganale, la nostra soddisfazione esplode in un fiume di sonori ululati di
approvazione, entrambi ammirando i timbri sui rispettivi passaporti. Finché Mohammed, per un attimo lasciatosi trascinare dalla nostra euforia, richiama la nostra attenzione, non con poche difficoltà: sebbene l’ostacolo principale sia ormai passato, avremmo dovuto orasuperare il controllo dei bagagli.
Tutti e tre lanciamo un enorme sospiro di sollievo quando, superato l’ennesimo controllo, vediamo il basso edificio bianco farsi sempre più piccolo nello specchietto retrovisore dell’auto. Un grosso cartello sovrasta la strada sterrata, e reca un’elegante scritta in scuri caratteri arabi: questa volta sì, siamo davvero “benvenuti in Algeria”.
Dopo circa un’ora di tragitto giungiamo nella frenetica città costiera di Annaba, e qui salutiamo Mohammed, che ci avrebbe tuttavia riaccompagnato a Tunisi al termine del nostro peregrinaggio algerino.
Il sole ha già raggiunto lo zenit, e il nostro tempo a disposizione, purtroppo, è limitato: il mattino seguente saremmo infatti ripartiti alla volta di Guelma, una piccola cittadina incastonata tra le province di el-Tarf e Skikda. Essendo Annaba il polo economico principale dell’Algeria orientale, nonché sede delle più prestigiose università del paese, gode di un’atmosfera liberale e avviata a una gradualema progressiva occidentalizzazione degli standard di vita.
Sebbene anche qui le donne velate costituiscano una maggioranza, essa rimane limitata se comparata con le altre città del paese, incluso Algeri. Sorta attorno all’anno mille sui ruderi dell’antica colonia romana di Hippona, Annaba si è votata fin dagli inizi alla pirateria che, se da una parte le ha permesso di arricchirsi e rinnovarsi costantemente, dall’altra ha più volte fornito a genovesi e pisani l’occasione di attaccarla e occuparla. Assoggettata in seguito da Mori, Siciliani, Almohadi, Hafsidi, Turchi e infine Francesi, i suoi quartieri risentono di un mix di stili architettonici sempre più pronunciati man mano che ci si avvicina al centro storico, alle pendici della Kasba. Come gran parte delle città algerine, infatti, anche Annaba consta di un antichissimo nucleo arabo, in questo caso dominato dalla cittadella fortificata. Sotto di essa, invece, sorgono i più recenti quartieri europei, iniziati con l’occupazione francese e largamente estesisi fino a raggiungere il porto.
Ed è proprio al porto che incontro Aziz, conosciuto pochi giorni prima della mia partenza grazie alla mediazione di un caro amico di Algeri, Hadi. Fidandosi della buona parola data in nostro favore da quest’ultimo, Aziz ha infatti di buon grado accettato di ospitarci per la nostra prima notte in Algeria, bendisposto inoltre ad accompagnarci per le vie principali della città durante le ultime ore della giornata.
Nonostante la maestosità della cittadella, che domina dall’alto delle boscose pendici della collina attorno al quale si avviluppa la città, il mio interesse e la mia curiosità sono catturati da altro: si tratta dell’enorme basilica di Sant’Agostino, che si erge massiccia in cima a una seconda collina, di dimensioni più ridotte. “Questa basilica è l’orgoglio della gente di Annaba” esordisce Aziz, mentre ci dirigiamo a passo svelto verso le pendici del colle. “È stata costruita poco più di cento anni fa, nel 1909, e vi chiederete perché le sue fondamenta siano state gettate in un luogo così impervio e difficile da raggiungere”.
Effettivamente, la strada che percorriamo si fa d’un tratto più ripida, le abitazioni più rade, e il viavai di gente meno frequente. “Bè, tutti conoscono Sant’Agostino, ma pochi sanno che nacque ad Annaba.” Si ferma per riprendere fiato, e indicando la cima della collina, aggiunge: “ed è proprio lassù dove cominciò a predicare la sua fede.” Rifletto per un attimo, e traggo le mie conclusioni: dopo oltre un millennio di dominio da parte di popolazioni straniere, è inevitabile che anche la religione fosse stata toccata da questo processo di sincretismo religioso. E a conferma di ciò, Aziz ci racconta di come la basilica sia sempre più visitata da algerini di ogni condizione sociale. Questi visitatori sanno benissimo che non vengono a visitare un museo, ma un luogo di culto meritevole di ossequio e devozione, per conoscere meglio il loro antenato Agostino. L’interno, debolmente illuminato dai raggi filtrati di un sole ormai tramontante, si sviluppa in lunghezza, dovendo adattarsi agli spazi ristretti offerti da una collina ripida ma dalle ridotte dimensioni.
Vicino all’altare è raggruppato un cospicuo numero di Padri Agostiniani che, come ci racconta Aziz, vivono nell’ala posteriore dell’edificio, accanto alla comunità delle Piccole Sorelle dei Poveri. Mentre i primi, perpetrando le funzioni celebrate nella basilica, assicurano la continuità di una comunità, quella cristiana, ormai pressoché scomparsa, le Sorelle si prendono cura degli anziani della città, spesso abbandonati in condizioni misere. “La gente di Annaba è molto generosa ed aiuta la casa a vivere, nonostante non rappresenti la nostra religione.” La flebile voce di Aziz echeggia tra gli alti soffitti della basilica.
All’esterno ci viene riservato uno spettacolo ancor più grande: il cielo, infiammato in ardenti tocchi rosso e arancio, riflette le sue tinte incandescenti sul paesaggio circostante. I palazzi, gli alberi, il mare, tutto partecipa a questa lenta processione di colori, dipingendosi di tonalità sempre più accese. È iniziato lo show serale, e tutti devono assistervi: la piazzetta circolare alle nostre spalle si riempie di spettatori e di sospiri. Tutto mi seduce ed è magico. Il mare in lontananza è calmissimo, anch’esso incantato e surreale. Un paio di barchette di pescatori, completamente nere, come due ombre, danzano coccolate dall’acqua nel varco creato dal sole. Gradualmente, alzando pian piano lo sguardo, il rosso si fa arancione, e poi rosa, per poi perdersi e confondersi nell’azzurro serale della volta celeste. E infine, inghiottito dai bassi edifici della Kasba, simile a una grossa pepita d’oro massiccio, il sole si eclissa, soffocato da un cupo cielo notturno, precocemente punteggiato di stelle. “Mash’Allah…” sento Aziz sussurrare, “Dio è onnipotente.”
Dopo esserci saziati di tale spettacolo, intraprendiamo la discesa lungo il sentiero sui fianchi della collina, osservando un silenzio quasi liturgico. Siamo diretti nuovamente alla Kasba, spinti questa volta, più che dalla curiosità, dai lamenti dei nostri stomaci: qui avremmo infatti trovato i ristoranti più tipici e allo stesso tempo economici della città. I richiami registrati dei muezzin celebrano l’inizio della preghiera serale, gettando scompiglio tra i fedeli ritardatari, che ci sfrecciano davanti in direzione della moschea più vicina.
“Ho un’idea” esclama all’improvviso Aziz, scomparendo dietro le persiane di un negozietto di alimentari. Io e Nasri ci fissiamo perplessi, ma il nostro fedele anfitrione non si fa aspettare a lungo, e ricompare pochi istanti dopo con un paio di borse stracolme di cibo. Con un cenno ci fa segno di seguirlo e, obbedienti, raggiungiamo la macchina, parcheggiata poco distante. “Mangeremo un po’ freddo…” ci dice, alludendo alle borse fumanti, “…ma ne varrà la pena, fidatevi di me!”, e con un sorriso si lancia nel caotico traffico di Annaba.
Presto ci lasciamo la città alle spalle, immergendoci nel buio più totale del monte Edough. La strada prosegue serpentina sul costone meridionale di questo immenso massiccio boscoso, che fa da cornice ad Annaba.
La metropoli, un’immensa macchia nera illuminata dalle luci artificiali di migliaia di macchine ed edifici, brulica ai nostri piedi. L’aria si fa all’improvviso frizzantina, e sono costretto a ritirare il braccio sporto dal finestrino dell’auto. Aziz guarda divertito i nostri musi, appiccicati ai freddi vetri della vettura, mentre fissiamo Annaba sfrecciare via, facendosi sempre più piccola man mano che proseguiamo. Poi, dal nulla, il buio viene squarciato dai riverberi di un piccolo villaggio, che come una ferita luminosa si fa spazio nella scura e fitta boscaglia. “Benvenuti a Seraidi!” esclama eccitato Aziz.
Seraidi è un grazioso e tranquillo villaggio incastonato sulla cima del monte Edough, a soli pochi chilometri di distanza da Annaba, che si estende luminosa ai suoi piedi. Le piccole abitazioni, non più di un centinaio, si ergono disordinate dove l’impervio terreno lo permette, e le contorte stradine si intrecciano e inerpicano nell’arduo tentativo di congiungerle alla strada principale. Seguiamo silenziosi Aziz che, con non poche difficoltà e con l’ausilio di una torcia, si issa su una formazione rocciosa poco distante dalla via
centrale del villaggio. E per la seconda volta in quella giornata, Annaba ci regala una vista spettacolare: il cielo ceruleo, confondendosi con il blu intenso del mare, sembra avvolgere in un turbine di sfumature turchesi quel formicaio di luci, colori e suoni cittadini.
Aziz estrae tre grossi panini imbottiti e, porgendoceli, ci fa cenno di accomodarci sul masso e goderci il panorama. Ci racconta di come venga quassù, da solo, ogniqualvolta senta la necessità di lasciarsi cullare dai propri pensieri, lontano dalla confusione e il caos di Annaba, così vicina eppure così lontana. Terminiamo la nostra cena con tutta calma, e ancora una volta, come colpito da una improvvisa scarica di energia, Aziz balza in piedi: “e dopo il pasto, la bevanda!”
Ritorniamo alla macchina, mimetizzata tra le nere frasche della vegetazione circostante, e ripercorriamo la strada a ritroso. Questa volta, però, ci inseriamo in una piccola diramazione, perfettamente nascosta dall’insufficienza di luce, fermandoci pochi metri più in là: dal finestrino scorgo uno sparuto gruppo di uomini accovacciati per terra, appena percettibili sotto il cielo stellato. Scendiamo dall’auto, e percorriamo gli ultimi ripidi metri a piedi, facendo attenzione a non scivolare. Man mano che ci avviciniamo a quel bizzarro assembramento notturno, in un luogo così impervio e isolato, percepisco il debole gorgoglìo dell’acqua che scorre. Solo allora capisco che quel capannello di persone sta diligentemente aspettando il proprio turno per poter riempire le loro grosse taniche d’acqua. Vedendoci arrivare sprovvisti delle nostre, con un sorriso appena percettibile nell’oscurità più totale, ci fanno cenno di passare: l’acqua, freschissima,
zampilla copiosa da una piccola fenditura del terreno, proseguendo la sua corsa lungo il pendio del monte, a valle.
Aziz ci racconta che l’acqua, uno dei beni più preziosi in Algeria, è anche molto cara in città; e gli annabini, non potendo fruire di quella domestica (lo stesso Aziz, come avremmo constatato più tardi, non è provvisto di acqua corrente in casa), sono disposti ad aspettare ore, in coda, pur di riempire le proprie taniche di quel liquido purissimo e trasparente.
Sono ormai le ventuno. Appesantiti dalla fatica di un lungo viaggio, e carichi di così tanti incredibili momenti nell’arco di una sola giornata, decidiamo di montare ancora una volta in auto, questa volta diretti a casa.
Salutiamo così la tranquillità di Seraidi, lasciandoci alle spalle gli intimi e impenetrabili segreti celati dall’oscurità del monte Edough, e ci dirigiamo in città. Percorriamo il tragitto in silenzio, ognuno in balia dei propri pensieri.
L’indomani ci alziamo di buon’ora, e approfittando del passaggio di Aziz arriviamo alla stazione dei taxi di Annaba attorno alle sette e mezza. Qui siamo costretti a separarci in tutta fretta dal nostro affezionato anfitrione, diretto al lavoro, che tuttavia avremmo rincontrato ad Algeri qualche giorno più tardi: sarebbe infatti venuto a visitare Hadi, e con l’occasione ci avrebbe riaccompagnato ad Annaba.
Dopo una breve ma intensa contrattazione riusciamo a procurarci un taxi che, per l’equivalente di tre euro a testa, ci avrebbe accompagnati a Guelma, distante una settantina di chilometri.
Non essendoci un’autostrada che colleghi le due città, il cammino che percorriamo prosegue a zigzag in un susseguirsi di verdeggianti colline, alle pendici delle quali sorge il bacino lacustre di Fetzara. La foschia avvolge i piccoli e geometrici appezzamenti di terra sorti abusivamente sul ciglio della strada, che avanza irregolare adattandosi alla difficile orografia del paesaggio. Lungo il tragitto ci fermiamo più volte per far salire improbabili individui fermi al margine della carreggiata, per poi lasciarli pochi chilometri più avanti e sostituirli con altri. Finalmente, circa due interminabili ore più tardi, giungiamo a destinazione.
Guelma, nonostante sia il capoluogo dell’omonima provincia, non supera i centomila abitanti. Raggiungiamo la piccola cittadina in tarda mattinata, e dovendo aspettare Housseyn Bezahi, un amico di vecchia data di Nasri, decidiamo di gustarci un caffè in tutta tranquillità in un minuscolo bar al limitare della stazione dei bus.
Housseyn, come ogni arabo che si rispetti, è in ritardo, e ho quindi tutto il tempo per godermi la concitata fauna cittadina nel suo quotidiano e ordinario viavai. Mi colpisce la presenza in città di una considerevole comunità africana: soprattutto giovani madri, avvolte in coloratissimi drappi che esaltano la pelle corvina del loro volto. Circondate ciascuna da un piccolo drappello di vivacissimi bambini in cenci, cercano come possono una protezione dal caldo opprimente. I mariti e i figli più grandi, invece, si mimetizzano tra le stradine di Guelma, cercando di racimolare il necessario per proseguire il loro viaggio, che si sarebbe coronato solo una volta raggiunte le sponde europee. L’Algeria è infatti, grazie agli scarsi controlli delle sue estesissime frontiere, una meta obbligatoria per gran parte dei migranti che, dall’Africa Sub-Sahariana, sono diretti al Vecchio Continente.
Quello che molti ignorano, precisamente, è che la traversata del Mediterraneo non è che la tappa finale di una lunga e pericolosa odissea: attraversare le diverse frontiere dell’Africa e i loro complessi apparati di sicurezza e di criminalità, o di corruzione, è per molti migranti subsahariani una sfida umana piena di azzardi, di cui si hanno spesso poche tracce e testimonianze. Non solo il viaggio comporta un grandissimo costo in termini economici (migliaia di euro, in aree nelle quali il reddito pro-capite è per gran parte della popolazione inferiore ad 1 euro al giorno), ma anche in termini di rischio per la vita stessa. Osservo quell’esercito di migranti vestiti di stracci e pezze colorate da dietro la mia tazza fumante di caffè. Un esercito di schiavi, eppure senza padrone, penso.
Rifletto a ciò che gran parte di noi ha, ma dà spesso per scontato: un lavoro, un’identità, un passaporto; un pezzo di carta che lo schieri dalla parte dei “buoni”, o forse sarebbe meglio dire dei fortunati, che hanno la possibilità di attraversare frontiere e paesi senza dover rischiare la propria vita. E non per miseria o indigenza: per il semplice gusto di viaggiare e vedere realtà nuove, realtà che la maggior parte delle volte vengono viste e volutamente ignorate. Perché dopo tutto, io stesso avrei pagato il mio caffè, e proseguito
la mia, di “traversata”, sapendo però che un aereo mi avrebbe riportato al sicuro nella parte “buona” dell’emisfero; senza nessun rischio, nessun pericolo, nessuno sforzo. E io stesso avrei ignorato quell’esercito di schiavi senza padroni e, in molti casi, senza futuro.
L’arrivo di Housseyn mi strappa dai miei pensieri: un alto e corpulento uomo scende a fatica dalla sua vecchia e sgangherata Renault impolverata. Il caldo è opprimente, e la sua camicia scura esalta le vistose chiazze di sudore. Dopo un lungo ed intenso saluto, Nasri riesce a sganciarsi dall’appiccicoso abbraccio dell’amico, che mi viene presentato. Housseyn potrebbe essere scambiato tranquillamente per un turista occidentale: la sua pelle, chiarissima e tempestata di lentiggini, fa da cornice a due tondi occhi azzurri, mentre i capelli, leggermente ondulati e di un rosso acceso, gli arrivano fino alla linea della mascella.
Ci fa cenno di montare in auto e, ubbidienti, lo seguiamo. L’aspetto trascurato della vecchia Renault, che solo più tardi avremmo scoperto essere stata affittata per riceverci, si riflette nei malconci e trasandati interni. Housseyn, che come gran parte degli algerini non mastica una parola di inglese, ci racconta di aver preso un permesso dall’officina in cui lavora, e che è del tutto intenzionato a mostrarci gli angoli più belli della sua
Guelma. Lo seguiamo, diretti verso il quartiere termale di Hammam Meskhoutine.
Il complesso di cascate termali sorge a circa 15 kilometri a sud di Guelma. Imponenti formazioni calcaree di forma conoidale si ergono maestose al centro della piana di Hammam Debagh, poco distante dalle sponde del fiume Oued Seybouse. La cima di queste sculture di roccia sedimentaria, in alcuni punti pianeggiante, permette la stagnazione dell’acqua termale proveniente da una fenditura più a monte.
Queste grandi pozze d’acqua bollente, ingrossate dalle copiose sorgenti che punteggiano qua e là le rocce, strabordano, dando vita a spettacolari cascate. Avvolte da una spessa coltre di vapore, le acque scendono a valle in rigagnoli fumanti, fino a disperdersi nei torridi terreni argillosi della piana semi-desertica. Housseyn ci fa cenno di seguirlo, e incurante dei frequenti schizzi d’acqua bollente, si appresta a inerpicarsi là dove le rocce sembrano essere più lisce e lineari. Il calore si fa in poco tempo insopportabile, ma ci ritroviamo presto in cima al più grande di quei pinnacoli termali. La piana di Hammam Debagh si estende ai nostri piedi, ma ciò che cattura la mia attenzione sono le fumanti polle termali che minano la sommità rocciosa, dalle quali fuoriescono violenti sbuffi di vapore rovente.
L’accidentato terreno, reso rosaceo da una reazione chimica con le altissime temperature, è solcato da stretti ma profondi rigagnoli di acqua in ebollizione. Le caldane possono infatti raggiungere qui i 97 gradi centigradi, prima di lanciarsi nel vuoto e perdere gran parte della propria energia termica. Tra i vapori fumanti intravedo due uomini rannicchiati per terra, chini su una delle numerose pozze. Incuriosito, mi avvicino, e stento a crederci: armati di lunghe pinze di ferro, sono intenti a bollire una dozzina di uova, che avrebbero poi venduto a valle ai numerosi turisti che visitano ogni giorno il sito. Sono ormai le sedici quando, dopo esserci rimpinzati di alcune delle specialità algerine, tra cui i deliziosi spiedini di montone, siamo di nuovo in carreggiata, diretti questa volta in centro.
Consapevoli del fatto che Guelma non è che una tappa di passaggio, io e Nasri ci scambiamo un’occhiata veloce, e concordiamo che si è fatta l’ora di salutare Housseyn e dirigerci alla stazione dei bus. Entro serata avremmo dovuto infatti arrivare a Costantina, la maestosa città dai cento ponti, dove questa volta ci avrebbe aspettato Yassine, amico del nostro primo anfitrione Aziz. Housseyn riesce tuttavia a convincerci a fare un’ultima breve sosta nel suo nuovo appartamento, recentemente eretto su una delle numerose colline circostanti Guelma. Accettiamo di buon grado, persuasi dalla descrizione di dolci tradizionali e dai nomi esotici che sua moglie Sarah ha preparato apposta per noi. L’alto edificio color ruggine, delimitato da un basso muretto ornamentale, domina il quartiere dal punto più alto della collina.
L’intonaco della facciata principale, precocemente stinto dalle torride temperature estive, si mimetizza con il cielo terso e tinteggiato di ocra, mentre l’ingresso, un grosso arco arricchito da decorazioni berbere, ci dà il benvenuto con le sue vivaci sfumature turchesi. Al suo interno la casa, arredata con un tocco di gusto femminile, è pulita e profumata, e ci trasmette un senso di accogliente e sobrio benvenuto. Lo stesso Housseyn, visibilmente sorpreso dalla meticolosità con cui la moglie ha deciso di accoglierci, ci fa cenno di accomodarci su uno dei numerosi divani del salone.
Al centro della grande stanza c’è un basso tavolino rettangolare, coperto da un grosso drappo colorato che lascia intravedere dei grandi vassoi stracolmi di cibo. Dopo essere scomparso dietro i tendaggi di quella che dev’essere la cucina, Housseyn ricompare poco
dopo con una raffinata teiera fumante ornata di motivi berberi. Chiediamo dove sia la moglie, per poterla almeno ringraziare di persona. “Si sta preparando per andare a Costantina” ci risponde con un sorriso. Io e Nasri ci scambiamo un’occhiata perplessa, non capiamo. “Davvero credete che vi lascerei andare a Costantina su uno di quei bus che cadono a pezzi? Mia moglie ha tutta la sua famiglia là. Le ho chiesto se avesse voglia di andare a trovarla, e con l’occasione avrei potuto rendere felice anche i miei due ospiti, accompagnandoli” spiega. “Voi arabi siete unici nel vostro genere” è tutto quello che riesco a dire. “Riuscite sempre a farmela sotto il naso!”
Compiaciuto dall’inasperato annuncio di Housseyn, e dal sollievo di non dover percorrere i 115 kilometri che ci separano da Costantina su uno di quei bus affollati, mi appresto a servirmi una tazza di tè, quando il vassoio viene finalmente scoperto. La sorpresa che mi si legge in volto dev’essere molto espressiva, perché sia Housseyn che Nasri, sicuramente più abituato di me a questo tipo di accoglienze, scoppiano in una fragorosa risata: “Sahha lik azezy, che la salute ti accompagni sempre.” Nonostante le sue dimensioni, la grossa sottocoppa argentata strabocca di una grande varietà di dolci colorati.
Dai più tradizionali baklawa, presentati nella loro tipica forma triangolare, farciti di noci e immersi in uno sciroppo di limone, ai meno conosciuti Basbousa, addobbati con semolino e mandorle. Ma anche i raffinati kunafa, i “capelli d’angelo”, farciti con un composto di formaggio fresco, frutta secca tritata e miele, e la muhalabiyyah, il budino di semola tradizionalmente consumato nel periodo di Ramadan.
E ancora, il mutabak, un pasticcio dolce e saporito spesso farcito con formaggio e banana, e la tahina, una crema oleosa ottenuta dai semi di sesamo tostati e spremuti, molto densa e di color nocciola. Il tutto arricchito da coppette traboccanti di miele, pistacchi, mandorle, noci, noccioline e anacardi; caraffe di laban, latte di capra fermentato e usato come inibitore di sapori, e di freschissima spremuta d’arancio e datteri.
Dopo esserci rifocillati e aver reso omaggio alle fatiche della moglie, siamo finalmente pronti per partire. E lo è anche Sarah, che fa capolino da una delle stanze. Vestita con una larga tunica rosa, e coperta da un velo azzurro altrettanto appariscente, si presenta con voce timida e un radioso sorriso in volto. “siamo pronti!” esclama Housseyn, sventolando le chiavi della vecchia Renault.
Salgo in macchina schiacciato ancora una volta dal peso delle emozioni che questo viaggio mi staregalando. Mi sento pieno ma allo stesso tempo svuotato, pensando a tutte quelle persone che incontro lungo il mio cammino e che lo rendono tanto incredibile quanto nostalgico.
Sono solo una pedina di passaggio in queste sperdute terre algerine, eppure non faccio che incontrare tanti Housseyn, Aziz o Sarah che, non curanti di ciò, danno corpo e anima per rendere questa mia traversata indimenticabile. E lo fanno senza nulla chiedere in cambio, se non un sorriso.
Fuori dal finestrino il paesaggio agreste è avvolto dal caldo sole tramontante. La luce profonda retrocede sulle morbide linee disegnate dalle colline, rese rossicce da quella danza di colori. Forme geometriche e confuse tracciano contorni bruni sul cielo purpureo, come le guglie di un borgo medievale sullo splendore di un incendio. E quando tutto il grande cerchio delle colline si immerge nell’ombra, solo quelle più alte, come i lupi solitari di una mandria sonnolenta e intorpidita, brillano lontane di una luce fulgida, come se vi battesse il raggio di un altro sole, e le loro cime gloriose fossero privilegiate di un’aurora eterna.
In macchina tutti osservano un silenzio liturgico, quasi fosse un atto di riverenza dovuto, per ringraziare la natura di quello spettacolo.
Arriviamo a Costantina per l’ora di cena, quando ormai la città è immersa nell’oscurità più totale. Yassin ci aspetta nei pressi del ponte di accesso alla città che, a causa del traffico, raggiungiamo non senza qualche difficoltà. Al nostro arrivo non passiamo inosservati e così, pur non avendoci mai visto, veniamo subito avvicinati da un giovane e macilento ragazzo. Yassin, proprio come Housseyn, a prima vista può essere scambiato per un turista occidentale: anch’egli di origine berbera e dalla carnagione molto chiara, ci dà un timido benvenuto, presentandosi a ciascuno dei presenti. Sebbene semi-celati dall’oscurità, i due grossi e vispi occhi azzurri, incorniciati da un paio di occhialetti da vista, risaltano sul suo viso scarno.
Housseyn ha un ultimo desiderio prima di lasciarci per tornare a Guelma, e ci propone di accompagnarlo a visitare un paio di amici, che ci stanno aspettando per cenare. Ormai in parte avvezzo a questo tipo di inviti dell’ultimo momento, accetto di buon grado, e lo stesso fanno anche Nasri e Yassin.
E così, tutti nuovamente in macchina, facciamo una piccola deviazione per accompagnare Sarah alla casa di famiglia, e dopo esserci brevemente salutati e abbracciati, ci dirigiamo verso il quartiere popolare di Emir Abdelkader, a nord della città. E’ realmente difficile rendere l’atmosfera di queste strade: non è l’esotismo del bazar orientale, con la sua abbondanza di merci, profumi e colori, che colpisce di più, ma la stordente varietà del caleidoscopio umano, in cui la miseria e il dolore sono trasfigurati dalla vitalità di un incessante traffico di scambi e di incontri.
Il quartiere è completamente privo di elettricità, ma allo stesso tempo brulica delle
attività umane più disparate. Lungo la strada sostano molte donne, accovacciate per terra vicino alle loro bancarelle o semplicemente a grandi ceste piene di frutta, verdura, ricotta, formaggio fresco, spezie o bustine riempite di bevande colorate – verdi, azzurre, arancioni – che non riesco a identificare. O ancora gabbie stipate di animali da cortile, galline, pulcini, papere, conigli. Sono donne energiche, fiere, acconciate con abiti variopinti, occhi a volte pesantemente sottolineati con il nero del kohol e tatuaggi di hennè sulle mani.Hanno l’aria di venire da villaggi di campagna, di non essere cittadine, e sono assolutamente allergiche alla macchina fotografica.
I bazar espongono disordinatamente le loro merci: tessuti, vestiti, scarpe, drogherie con i sacchi pieni di lenticchie, riso, pasta, erbe e spezie, appoggiati alla rinfusa su pezzi di cartoni abbandonati a se stessi nelle strette strade polverose. Anche il cielo, scuro e privo di luna, sembra sporco e in disordine. Le ripide e angustie viuzze, gettate alla rinfusa da qualche scellerato architetto e abbandonate a sé stesse, sono percorse incessantemente da biciclette e motorini, che sfrecciano incuranti zigzagando tra le merci e le persone, mentre carriole e carrette trainate da muli e diretti chissà dove, si fanno largo a furia di imprecazioni e urla impazienti. Finalmente arriviamo a destinazione: l’edificio, anonimo e incompleto come tutti gli altri, si erge traballante in mezzo a quella giungla di cemento e polvere.
Ad accoglierci, all’ingresso, ci sono due uomini: Oncel Youssef, un uomo di mezza età dal ventre prominente e i baffi appuntiti, e Mohammed, per gli amici Mimou, un giovane sulla trentina vestito con una lunga tunica bianca. Ci fanno strada su per i ripidi e approssimativi gradini mai terminati di quel palazzone tanto alto quanto stretto, finché non raggiungiamo il quinto piano. Mi rendo conto che i diversi piani sono comunicanti tra loro, e a separarli non vi è nessuna porta. Mimou mi spiega come l’intero complesso fosse abitato da un unico nucleo familiare, che vive come in una piccola comunità indipendente e auto-gestita.
Come se fossimo amici di lunga data, ci mostra le numerosissime stanze che lo compongono, presentandoci i suoi abitanti ogniqualvolta ne incontrassimo uno lungo la scalata. Qui, adiacente alla terrazza, un enorme e accogliente salone tappezzato di tendaggi e paramenti fa da padrone all’ultimo piano, terminato di recente.
Non facciamo in tempo a riprendere fiato, che una grossa tavola di legno intagliato viene imbandita di ogni bendidio: falafel, tonno, paste ripiene di spinaci, carni e spezie di ogni tipo, zuppe, spiedini e formaggi dagli odori pungenti. Ma la portata principale è costituita dall’abbondante vassoio di chakchouka, da sempre presente nelle occasioni importanti di tutto il Maghreb: uno stufato di peperoni dai gusti forti, arricchito di uova e verdure, e spesso accompagnato a dei crostini di pane di segale.
Ogni boccone viene consumato lentamente, accompagnato da fragorose risate e pacche sulle spalle.
Per chi non ci conoscesse, penserebbe che la nostra sia una serata tra amici di lunga data come tante altre. La semplicità con cui le parole scorrono, assieme alle lancette, mi sorprende. Ognuno ha qualcosa da raccontare, perché dopotutto, nessuno conosce a fondo l’altro. E così, ne approfitto per conoscere Yassin, l’ospite che ci avrebbe accolto nella sua casa quella notte. Scopro che è studente di ingegneria, e come tanti altri giovani come lui, sogna di lasciare l’Algeria un giorno. Mi racconta delle sue passioni per le lingue, il viaggio e le culture straniere, e di come abbia dovuto accantonare i suoi sogni per seguire le orme del padre, quando dovette iscriversi a una facoltà che non sentiva sua. Mi confida di come gli si fossero illuminati gli occhi, quando Aziz gli aveva annunciato il mio imminente arrivo in città, vedendo in me un’opportunità di lasciarsi anche solo per un giorno la routine alle spalle, e fantasticare con le descrizioni di un paese, il mio, tanto vicino quanto lontano dal suo. Rimango colpito dalla profondità dei suoi discorsi, raccontati con un filo di voce che non traspare più la timidezza di poche ore prime, ma la malinconia di un’attesa durata troppo. Ma il grido di Mimou, che con gesti eloquenti ci fa segno di seguirlo in terrazza, interrompe la nostra breve ed intensa chiacchierata.
Più che una terrazza, il gigantesco balcone sembra una delle numerose stanze dell’edificio, con l’unica differenza di avere come soffitto l’impenetrabile volta stellata. In un angolo, Mimou e Youcef sistemano dei lunghi materassini colorati, indicandoci di accomodarci. Nonostante siamo seduti, le basse pareti del terrazzamento ci permettono di vedere oltre, e ammiriamo la frenetica città incastonata tra le profonde gole collegate tra loro da giganteschi ponti. Una brezza leggera soffia quasi impercettibile alle nostre spalle, scompigliando i capelli. “Sahha likom e benvenuti a Costantina, la città dei cento ponti!”
Anticipato dall’aroma dolciastro dell’infuso di menta, Youcef ricompare dal salone con un grosso vassoio fumante. Il tè ci viene servito uno ad uno da Mimou, che con grande destrezza lo riversa nei nostri bicchierini allontanando gradualmente la teiera verso l’alto, in modo tale da ottenere la kachkoucha, una raffinata e deliziosa schiuma. La serata si conclude ancora una volta in armonia, tra chiacchiere e risa, ed è già l’una quando Housseyn, inghiottito dai cuscini, annuncia di doverci lasciare: l’indomani avrebbe
lavorato, e 115 kilometri lo separano ancora da casa sua, Guelma. Anche io, Nasri e Yassin, scambiandoci un’occhiata, decidiamo che è meglio rientrare, per poterci svegliare presto l’indomani, e partire alla scoperta di Costantina. Abbracciamo e ringraziamo per l’ospitalità Mimou e Youcef, che in cambio ci regalano una gigantesca cartina dell’Algeria, augurandoci un buon proseguimento, e ci ritroviamo presto tra le stradine, ancora affollate, di Emir Abdelkader.
Questa volta salutiamo anche Housseyn, con la promessa che, di ritorno a Tunisi, avremmo fatto nuovamente tappa a Guelma per un ultimo abbraccio.
Rimasti in tre, ci dirigiamo a passo deciso verso il centro città, dove Yassin vive con la sua numerosa famiglia, per spendere la nostra prima notte a Costantina.
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