Viaggio in Algeria, parte #2 (parte #1 qui)
Fotografie e diari di Marco Gironi
L’indomani ci svegliamo di buon ora, decisi a concludere la nostra visita della città prima del tramonto, quando avremmo preso il nostro bus per Algeri. Yassin, nonostante alle apparenze possa sembrare un ragazzo molto timido, si rivela essere fin da subito un affabile cicerone e, armato di cartina, ci illustra il suo piano di esplorazione della città. Studiato nei minimi dettagli, il nostro itinerario ci porterà a toccare tutti i suoi punti salienti durante il nostro limitato tempo a disposizione.
Con quasi mezzo milione di abitanti, Costantina, che è capoluogo della wilaya omonima, è interamente circondata dagli Djebel el-Wahch, letteralmente “gli altopiani mostruosi”. Nonostante l’orografia difficile del territorio, la città è riuscita a svilupparsi su uno dei massicci rocciosi di forma trapezoidale, isolato su tre lati dalle gole incise dell’Uadi Rhumel e dai suoi tributari. Per questo, nel corso dei secoli sono stati eretti uno dopo l’altro maestosi ponti e numerosissimi viadotti, cavalcavia e passerelle, rendendo Costantina una vera e propria città sospesa nel vuoto. Ciò non le ha impedito di crescere fino a diventare uno dei più importanti nodi di comunicazioni stradali e ferroviari tra gli altopiani e la regione costiera.
Siamo diretti al più antico degli acquedotti, risalente al dominio romano: nonostante getti le sue basi nelle profondità della gola più profonda, svetta in altezza al di sopra di ogni edificio circostante. “Costantina è probabilmente la città più antica dell’Algeria” ci racconta Yassin indicando l’acquedotto. “Si dice sia stata fondata attorno al secondo secolo avanti Cristo, e che all’inizio si chiamasse Cirta, e che solo con la fine delle Guerre Puniche, quando l’imperatore Costantino la conquistò, prese il nome che conserva tuttora.
Già a quei tempi era ricca e popolosa, grazie soprattutto agli intensi rapporti commerciali che la città intratteneva anche con gli imperi più lontani…” Ascoltiamo attentamente Yassin, che nel frattempo si sposta lungo il costone orientale della gola, delimitato da una bassa e innocua barriera di mattoni. “…e infine, con la conquista araba della Berberia, Costantina entrò finalmente nell’orbita musulmana.” Noto nella sua voce una nota di orgoglio. Continua: “grazie alla sua inespugnabile posizione, cominciò ad essere considerata da diversi strateghi un punto cruciale per la conquista dell’intera regione nordafricana, e per questo giocò un ruolo fondamentale in molti avvenimenti militari e politici, passando dapprima sotto il dominio del Califfato, e successivamente di varie dinastie e potenze, più o meno autonome, che regnarono l’Africa settentrionale: Aghlabiti, Fatimidi, Ziriti, Hammaditi, Almohadi e infine Hafsidi, conosciuti come i Turchi d’Algeria.” Yassin riprende fiato, e leggendo l’interesse nei nostri occhi, prosegue con entusiasmo: “siamo stati gli ultimi, qui a Costantina, a cadere sotto il dominio francese, ben sei anni dopo che l’intero paese era caduto sotto il dominio coloniale. I francesi tentarono insistentemente la conquista, ma per ben due volte li respingemmo ad Algeri. Finché, chiaro, ricevettero rinforzi e alla fine ci riuscirono, nel 1836.”
Proseguiamo al limitare del burrone, e ancora non mi capacito di come una città tanto grande fosse riuscita a fiorirvi tutto intorno: gli edifici si ergono traballanti lungo l’intero perimetro della spaccatura, che si apre come un enorme ferita nel cuore della città. Persino gli spazi più angusti, a ridosso delle ripide rocce, sono occupati da piccole casette di mattoni, che a fatica si tengono salde sui blocchi di pietra.
Avvicinandoci al punto più orientale della gola, un improvviso fragore di acqua che si infrange ci spinge ad affacciarci dal parapetto: il fiume Rhumel, che nei secoli ha contribuito a scavare in profondità nelle cicatrici di Costantina, si getta nel vuoto proprio sotto di noi, dove il complesso montuoso dei monti Wahch lascia spazio alle vaste pianure di Sidi Slimane. Le bruma provocata dal lancio nel vuoto giunge fino a noi, nonostante ci troviamo ad oltre duecento metri più in alto: lo spettacolo è inebriante.
Ci dirigiamo a passo svelto verso la teleferica, che in breve tempo ci permetterà di attraversare la gola in tutta la sua larghezza. Siamo infatti diretti all’imponente mausoleo di Soumma che, dal punto più alto della città, svetta tra le nuvole in omaggio al popolo d’Algeria. Per l’equivalente di venti centesimi d’euro ci ritroviamo in men che non si dica ai piedi del possente monumento.
Da qui si gode di una vista ancor più dettagliata della valle di Sidi Slimane, e soprattutto delle cascate del fiume Rhumel. Dopo una breve visita al mausoleo, aperto e in stato di totale abbandono, siamo ancora una volta spinti dalla foga di conoscere il resto della città, e ci apprestiamo quindi a discendere lungo le accidentate strade del lato est di Costantina. Questa volta siamo diretti al palazzo di Ahmed Bey, situato nel cuore della Kasba. Antica residenza di Hajj Ahmed, sultano della Cabilia orientale, il maestoso edificio si trova nella piazza del mercato della Medina. Durante il suo dominio, il sultano turco si fece costruire uno dei più bei palazzi di epoca ottomana del paese, celato al di là di alte pareti bianche.
Quando entriamo, veniamo accolti da una serie di lussuosi cortili interni, delimitati nella loro tipica forma quadrata da alti portici riccamente decorati. I motivi disegnati sulle pareti evocano i modelli più alti della cultura antica, e gli eleganti passi del corano dipinti sul soffitto raccontano l’eccellenza di Allah, protettore del popolo algerino.
Pomposamente adornate sono anche le pareti del porticato più grande, che si apre con tre maestose arcate sul cortile d’onore. Proseguendo verso il centro del complesso residenziale, ciò che incontriamo sono altri lussuosi giardini, decorazioni e graffiti, frontoni abbelliti da motivi floreali, e ancora attici, soffitti a travi e a cassettoni, portali e fontane, finché giungiamo nel corpo principale del palazzo. I vari edifici, interconnessi tra loro da percorsi logici con una serie di punti d’accesso che all’epoca dovevano essere sorvegliati, confluiscono tutti nell’enorme cortile centrale del Bey: a differenza dei precedenti, tuttavia, non sono i frondosi aranceti ad abbellirlo, ma una ritmica serie di colonnati di marmo bianchissimo, che cingono un’elegante fontana al suo centro. Il pavimento, anch’esso di marmo, riflette la luce del sole, rendendo difficoltoso posarvici lo sguardo. Aperto su due lati, l’ampio cortile si affaccia dalla parte opposta sul peristilio, un ulteriore giardino interno circondato da un portico, che in passato dava probabilmente accesso agli altri ambienti della casa: il triclinio, i cubicoli, la zona termale, la latrina, e poi le zone di servizio con le cucine, i magazzini ed eventualmente le sale più private.
Secondo quanto ci viene spiegato da Yassin, il Bey Ahmed deve aver goduto ben poco di tutti questi lussi: solo due anni dopo esservici trasferito, i francesi conquistarono la città, e con essa la residenza del sultano, che venne cacciato.
Trasformato dapprima in quartier generale, dopo l’indipendenza furono i militari algerini a stabilirvisi. Più recentemente, il palazzo è rimasto chiuso per oltre venticinque anni, sottoposto a una significativa restaurazione: ed eccolo ora, tangibile e in tutto il suo splendore, sotto i nostri occhi.
Sono già le quindici, e dopo aver percorso in lungo e in largo la Kasba, adiacente al Palazzo del Bey, decidiamo di dirigerci verso la monumentale moschea dell’Emiro Abdelkader, visibile da ogni punto della città. Con un’altezza di quasi centodieci metri, una cupola di oltre sessanta, e una capienza di quindicimila fedeli, questo immenso luogo di culto venne concluso nel 1994, rendendolo ufficialmente il più grande di tutta l’Algeria, e uno dei maggiori del mondo musulmano. I due colossali minareti svettano alti nel cielo terso, proiettando bizzarri giochi di luce e ombra sull’ampia spianata di marmo adiacente alla facciata principale. Il cortile esterno, abbellito da aranci, cipressi, palme e ulivi, è di forma rettangolare, delimitato da un lato da gallerie di archi sostenuti da sottili colonne elaborate.
Nonostante la frescura degli alberi, ci rifugiamo all’ombra del porticato, dove alcuni fedeli si dedicano alle abluzioni in quattro lavatoi, due per le donne e due per gli uomini, fatti costruire dall’emiro fuori dalla moschea. Superato l’ingresso a cupola che si apre oltre il grande arco ogivale della porta, veniamo spinti dal flusso di fedeli all’interno dell’edificio.
Yassin, indovinando i miei pensieri, stringe le labbra e mi incoraggia con un gesto a proseguire, non prima di essermi tolto le scarpe. Indugio un’altra manciata di secondi, aspettando che i miei occhi si abituino alla luce delle lunghe lampade sospese a pochi metri dal suolo. Persino Yassin, pur essendovi entrato più volte, non può che unirsi allo sbigottimento che tiene me e Nasri immobilizzati, mentre la gente continua ad affluire in massa, un po’ scansandoci e un po’ spingendoci. Un bosco di centinaia di colonne allineate, tenute insieme da archi doppi, gli uni sopra gli altri, si dischiude davanti a noi in un’alternanza di verde e azzurro. Rimaniamo raccolti alcuni istanti, respirando l’odore acre che si alza dal parquet sotto i nostri piedi.
Mentre Nasri è assorto nella contemplazione dei capitelli che sormontano le colonne, adornate dalle eleganti Sure del Corano dipinte con meticolosità, che lo invitano alla preghiera, io avanzo, affiancato da Yassin. “Non c’è altro Dio all’infuori di Allah, e Maometto è il suo profeta” sussurra Nasri alle mie spalle, come se una forza esterna, magica, l’abbia obbligato a pronunciare quelle parole.
A parte il giardino, la pianta della moschea è quasi quadrangolare, e nella parte centrale si erge il mihrab, completamente circondato da innumerevoli colonne e archi doppi che combinano il rosso e l’ocra. Seguendo le tortuose e ingarbugliate decorazioni che si susseguono sulle pareti, sono costretto ad alzare lo sguardo verso il soffitto: gli architetti avevano tentato di avvicinarsi a Dio attraverso le loro costruzioni, fino a dove le loro capacità tecniche lo consentivano: massicce alla base, slanciate in alto. Il successo è indubbio: la moschea di Abdelkader rappresenta ai miei occhi un prodigio dell’architettura musulmana, il risultato di un audace esercizio costruttivo nel quale il potere di Dio arriva a discendere sopra i suoi credenti, che qui si abbandonano alle loro preghiere in uno stato di catarsi. La sezione degli archi superiori delle doppie arcate, che riposano sulle colonne dell’edificio, è larga il doppio della sezione che li sorregge. Al contrario di quanto succede nelle costruzioni cristiane, nella moschea la base massiccia, il peso, si trova al di sopra di queste colonne, in evidente e aperta sfida alle leggi di gravità: il potere di Dio è situato in alto, al di sopra della debolezza della vita terrena, dei credenti che pregano sottomessi al volere divino.
Decidiamo di riposarci seduti a pochi metri dal mihrab, provati dalla lunga camminata e dal calore asfissiante delle strade di Costantina. Le lancette dell’orologio trascorrono veloci, eppure non smetto di studiare ogni singolo dettaglio che mi circondi. Noto come, tanto nel vestibolo quanto nel mihrab, gli architetti, coerenti con la magnificenza della cultura arabo-musulmana, debbano aver ricercato la combinazione di diversi stili architettonici, fino ad ottenere un insieme di incomparabile bellezza.
La nicchia in cui si custodisce il Corano si raggiunge passando sotto un’elaborata cupola ottagonale, i cui archi non si uniscono al centro ma si incrociano lungo le pareti. Sono presenti anche parti in marmo, importati da chissà quale paese lontano; iscrizioni coraniche in oro e arabeschi, eleganti decorazioni floreali e pianelle colorate: tutto contribuisce a rendere il luogo in cui mi trovo uno dei più belli e suggestivi che abbia mai visto.
Devono essere passate almeno un paio d’ore quando Yassin, coricandosi, si appresta a pregare. Lo osservo assorto per qualche istante, ma decido prontamente di rispettare quella nicchia di misticità e purezza in cui sembra essersi momentaneamente isolato, e distolgo lo sguardo.
Quando finalmente usciamo dalla Moschea, l’orologio segna le diciotto: è l’ora più bella del crepuscolo, quella che alcuni simbolicamente definiscono “la frattura tra i mondi”. Il cielo si tinge di infinite sfumature di colore, continue e soffuse in alto, spezzate e rifratte, come in un quadro di Monet. E’ come se due realtà parallele convivessero fianco a fianco, ignare l’una dell’altra: la città, ancora e sempre in moto, e la natura, che silenziosa si tinge e si specchia, indifferente agli uomini e ai loro affanni. Silenziosi e in balia di un’armoniosa e piacevole sensazione, ci godiamo questi attimi, dirigendoci a passo lento verso la stazione dei bus: le nostre ore a Costantina sono giunte al termine, e con esse anche un altro bellissimo capitolo della nostra avventura. Ma presto ne sarebbe cominciata una nuova.
La fortuna è dalla nostra parte: la prima corriera diretta ad Algeri sarebbe partita da lì a poco, e quindi siamo costretti a salutare Yassin in tutta fretta, assuefatti ormai all’inevitabile e nostalgico rituale dell’addio. L’avvizzito e malridotto autobus sarebbe arrivato a destinazione in cinque ore scarse, e quindi ci sistemiamo comodi sui larghi e polverosi sedili di tela.
Le ore trascorrono veloci in balia dei pensieri, e dopo una breve sosta a Setif per ristorarci, ci rimettiamo svelti in carreggiata. Sono le ventitré quando entriamo negli estesi sobborghi della capitale, e in circa mezz’ora ci ritroviamo di nuovo con lo zaino in spalla, infreddoliti e spaesati sul marciapiede della stazione. Ed è proprio mentre rifiuto la sordida proposta di un taxista, disposto ad accompagnarci dove volessimo per un prezzo esagerato, che scorgo il mio caro amico Hadi, colui che da Algeri ha orchestrato e mosso mezzo paese per riceverci.Improvvisamente ripreso dal sopore causato dal lungo viaggio, lo abbraccio con forza. Sono passati ormai quasi tre anni da quando ci siamo conosciuti, ed entrambi abbiamo atteso questo momento a lungo. Tra una battuta e l’altra presento il mio compagno d’avventure Nasri a Hadi, e insieme ci incamminiamo verso la macchina di quest’ultimo, stazionata poco lontano. “Spero non siate stanchi, perché non ho nessuna intenzione di portarvi a dormire” esordisce Hadi una volta montati a bordo. Io e Nasri ci scambiamo un’occhiata complice. “Certo che no” mento, “siamo nelle tue mani ora!”
Hadi è amante della velocità, e lo dimostra sfrecciando abilmente tra le vie trafficate della capitale che, nonostante la tarda ora, mi appare fin da subito come una città caotica e dalle mille sfaccettature.
Siamo diretti al bois des Arcades, un fitto boschetto che cresce florido sui terreni rocciosi dell’altopiano della Vittoria: centralissimo, è anche uno dei punti più alti della città. La strada, scarsamente illuminata, si inerpica tortuosa lungo le sue pendici, regalandoci una vista sempre più elevata. Le luci della città si fanno ad un tratto distanti quando svoltiamo a destra e ci inoltriamo verso l’interno del massiccio, finché non troviamo un luogo appartato in cui lasciare l’auto. “Fate attenzione a dove mettete i piedi, questo luogo è dimenticato da Dio” ci ammonisce Hadi estraendo una torcia dal bagagliaio. Lo seguiamo, a nostra volta aiutati dalla luce dei cellulari, finché il suolo si fa improvvisamente più ripido. “Non me ne vogliate, vi ho portato in macchina finché le leggi della fisica me lo hanno permesso” ci schernisce, apprestandosi ad arrampicarsi su per il pendio.
Nonostante non vi sia nessuna luce artificiale nei dintorni, il percorso si fa sempre più visibile man mano che avanziamo: la città, prima coperta dai massi scuri, fa la sua graduale apparizione alle nostre spalle, facilitandoci la scalata con i suoi potenti riverberi.
La cima, come tante altre volte, ci regala un panorama mozzafiato a trecentosessanta gradi sulla capitale: l’immensa megalopoli si espande a perdita d’occhio in ogni direzione, delimitata solo da un lato dalla scura linea del mare. La baia di Algeri, ora chiaramente visibile, si allunga all’infinito, rendendo la città il secondo porto naturale più esteso al mondo, secondo solo a quello di Rio de Janeiro. Illuminate a giorno, le numerose piazze, boulevard e moschee si nascondono tra gli alti edifici di quell’instancabile giunga cittadina. Hadi è il primo a rompere il silenzio, interrotto solo dall’insistente brusio in lontananza. “Siete stravolti. Bugiardi e stravolti.” I tratti dei nostri volti, ora chiaramente riconoscibili nell’oscurità, devono aver tradito la nostra stanchezza repressa, e così, senza ribattere, ripercorriamo il sentiero all’inverso, verso l’auto. “Come ultima cosa vorrei invitarvi a un the” aggiunge, mentre camminiamo. “E con l’occasione possiamo goderci una breve passeggiata in riva al mare, giù alla baia. Poi prometto che vi porterò a dormire.”
Sono ormai le due del mattino quando, stravolti, decidiamo finalmente di concludere la nostra giornata. Con una nota di tristezza, Hadi ci racconta di come da pochi giorni a questa parte fosse stato costretto a lasciare la sua casa, nel centro storico della città, per trasferirsi a Blida, a oltre trenta chilometri di distanza. Sfregiato dal potente terremoto di sole due settimane prima, ha dovuto abbandonare il nido della sua infanzia, ormai trasformato in una pericolante trappola mortale. A breve sarebbe stata abbattuta, ci rivela, ma per lo meno lo stato gliene aveva donata un’altra, di casa.
Blida, più che un quartiere periferico, si avvicina agli standard di una piccola cittadina, ed è stata costruita dal governo di Algeri in tutta fretta per far fronte alla sempre più crescente richiesta edilizia della capitale. Semi-indipendente e munita di scuola elementare, moschee, supermercati, bar e un modesto ospedale, si sviluppa attorno un rigido schema fatto di linee rette e geometriche che danno una parvenza di ordine urbano. L’edificio toccato a Hadi, identico a quelli circostanti, si trova sul limitare del perimetro cittadino, e si affaccia su una vasta pianata stepposa e arida. “Marhaban, benvenuti nella mia nuova ed umile casa.”
Il mattino seguente ci lasciamo svegliare dai roventi raggi di sole che penetrano dalla finestra. Sono ormai le nove quando chiudiamo la porta di casa alle nostre spalle e puntiamo, ancora una volta, verso Algeri. Hadi ha da sbrigare alcune pratiche burocratiche per il trasferimento di residenza e quindi, dopo averci spiegato dettagliatamente la geografia della capitale, ci suggerisce alcuni punti salienti da visitare durante il nostro primo giorno. Ci facciamo lasciare nella zona del porto e, dopo averlo salutato dandoci appuntamento in serata, passeggiamo in direzione di Bologhine, un delizioso quartiere coloniale situato alle pendici di un alto promontorio. La basilica di Notre-Dame d’Afrique, la vera meta del nostro peregrinaggio, si trova proprio in cima a questo poggio di oltre centoventi metri.
Una volta saliti sulla funivia, che lo collega al resto della città con una corsa ogni quindici minuti, ci godiamo il bel panorama del porto, che estende le sue braccia sopra le calme acque del Mediterraneo. Essendo il promontorio alto ma stretto, non dobbiamo percorrere che qualche metro, una volta raggiunta la cima, prima di trovarci davanti alla facciata principale della più grande chiesa cattolica di Algeri. Consacrata nel lontano 1872 dal cardinale Lavignerie, arcivescovo della città, divenne presto sede della società dei Missionari d’Africa (i cosiddetti Padri Bianchi), e arrivò ad ottenere il titolo di Basilica da Papa Pio IX, a soli quattro anni dalla sua fondazione.
Al contrario dell’esterno, abbastanza spoglio, l’interno della chiesa è riccamente ornato di dipinti religiosi, archi, colonne, mosaici e vetrate. Qui si venera una statua di bronzo della Madonna che, consumata dal tempo fino ad assumere un colore bruno tendente al nero, ha anche dato il nome alla basilica stessa: “Nostra Signora d’Africa”. I francesi infatti, giungendo in Algeria, venivano a venerare l’antico luogo di pellegrinaggio convinti di poter dominare l’intero continente africano, simbolicamente identificato nelle pelle morata della Madonna. Le due cappelle laterali sono dedicate l’una a Sant’Agostino (lo stesso venerato nella grande chiesa di Annaba), con scene che descrivono la nascita, la conversione, il servizio pastorale e infine la sua morte; l’altra a Santa Monica. Qui, affisse alle sue pareti, spiccano due colorate maioliche commemorative con i nomi dei martiri cristiani uccisi in Algeria fino al giorno d’oggi. Un grande affresco sullo sfondo del coro, invece, rappresenta il glorioso passato cristiano del Nord Africa, mentre dietro l’altare, nei pressi dell’abside, si trova una singolare iscrizione che recita: Nostra Signora d’Africa pregate per noi e per i Musulmani.
L’invocazione, oltre che in francese, è riportata anche in arabo e in cabilo, l’antica lingua parlata nel paese, e sottolinea come questo luogo di culto sia meta di pellegrinaggio non solo per i cristiani, ma anche per i musulmani. Si sono già fatte le dodici quando, usciti dalla chiesa, il cellulare di Nasri squilla. È Keltoum, una sua vecchia compagna di studi che da tempo vive ad Algeri, e che ci invita a pranzo nei pressi della Kasba. Da qui ci avrebbe portato a visitare la zona est della capitale, famosa per i suoi larghi vialoni alberati e il grande parco botanico di Essai du Hamma. Questa volta decidiamo di discendere la collina sulla quale sorge Notre Dame d’Afrique dal lato meridionale che, essendo decisamente meno ripido, è percorribile a piedi, e ci avrebbe portato direttamente nei pressi della Medina. Ed è qui che, di fronte al Palazzo di Giustizia, faccio la conoscenza di Keltoum, una giovanissima e slanciata ragazza dalla pelle chiara e gli occhi verdi.
Nonostante sia velata, la sua attenzione e interesse per la tendenza del momento è riconoscibile dai colorati capi alla moda che indossa, mentre i delicati lineamenti del volto sono messi in risalto da un’innocua guarnizione di trucco. Il suo inglese è molto limitato e così, ancora una volta, sono costretto a comunicare in un ibrido di arabo e francese. Dopo una breve sosta in un ristorantino del centro ci avviamo nei pressi di Tafourah, dove prendiamo la nuovissima linea della metro.
Aperta nel 2011, è arrivata a fare concorrenza a quella del Cairo, con la quale condivide il primato di unica rete ferroviaria metropolitana dell’intero continente africano. Rapida e silenziosa, ci porta a destinazione in poco tempo, e in men che non si dica ci ritroviamo fuori dalla stazione diJardin d’Essai. Situato nel cuore del quartiere di Hamma, questo enorme e lussureggiante giardino si estende fino a pochi metri dal mare, coprendo una superficie di ben cinquantotto ettari. Sorto sui resti di un antico anfiteatro romano, comprende anche il Museo Nazionale delle Belle Arti di Algeri, ed è delimitato da un lato dall’Avenue Belouizdad, e dall’altro dall’ampio vialone di Hassiba Ben Bouali, due delle principali arterie della capitale. Fu nel lontano 1832 quando, su proposta del sovrintendente francese Antoine Avisard, fu deciso di bonificare l’intera zona paludosa che si estendeva nell’attuale area adiacente al porto a fini agricoli. Il risanamento dei terreni venne esteso di diversi ettari, tanto che l’iniziale progetto agronomico venne accantonato, e la principale attività del giardino divenne quella di fornire alberi e fiori agli enti pubblici per la decorazione della città.
Fu solo un decennio più tardi, nel 1842, che questa grande oasi cittadina si trasformò in una vero e proprio giardino botanico di fama mondiale: l’introduzione di diverse culture non si limita più alle specie arboree, ma arriva a coprire ogni tipo di coltura annuale e perenne: ortaggi, legumi, piante e vegetali alimentari, ma anche industriali ed ornamentali. E ancora, bachi da seta, cotone, piantagioni di canne da zucchero, tuberi, ulivi e vari animali esotici, tra cui struzzi, uccelli acquatici, leoni, pantere e scimmie, tanto che fu proprio qui, in quello che allora era considerato uno dei migliori giardini al mondo, che venne girata una parte del celebre film “Tarzan”. L’ingresso non ci costa che pochi spiccioli, e subito veniamo accolti da un lunghissimo vialone di folti e rigogliosi platani. Tagliando esattamente a metà il giardino, avanza a perdita d’occhio in linea retta, fino a disperdersi con la linea del Mediterraneo, visibile a pochi kilometri di distanza. La bianca ghiaia di rivestimento provoca un netto contrasto con il verde dominante della vegetazione, tutto intorno. A rompere la monotonia bicolore del paesaggio, coloratissimi fiori e boccioli punteggiano l’immensa macchia boscosa, esplodendo in fresche e intense flagranze. Percorriamo circa metà del viale quando, giunti a un incrocio presenziato da un’elegante fontana in stile coloniale, decidiamo di svoltare a destra, inoltrandoci nella frescura degli arbusti.
L’ala est del giardino è occupata da un vero e proprio vivaio, anch’esso di impronta coloniale, adornato da colossali e criptici totem di pietra. Isolata dalle altre zone dal labirintico percorso di un fiumiciattolo, si estende su una superficie così grande, che per orientarci dobbiamo ricorrere a delle cartine di legno poste qua e là agli angoli dei sentieri. Attraversiamo numerosi ponticelli di legno, laghetti, stagni, ombrosi viali di bambù e di noci di cocco, giardini inglesi e giapponesi, bizzarre sculture e vicoli semi-nascosti da fitti cespugli di ficus, finché non ci ritroviamo, un po’ per caso, di fronte all’infinita spianata azzurra del mare. Quella vista mi riporta alla realtà mediterranea di un paesaggio, quello che per ettari si estende alle mie spalle, fatto di contorti tronchi d’albero, fitti arbusti frondosi e succosi frutti dalle forme esuberanti.
È ormai pomeriggio inoltrato quando, stanchi e affamati, intraprendiamo il paziente ritorno verso l’ingresso. Qui, decidiamo di spendere il resto del pomeriggio all’Echahid Maqam (il Memoriale dei Martiri), un grande complesso commemorativo della lunga e sanguinosa guerra d’Algeria per l’indipendenza. Ancora una volta, trovandosi su una delle alture della capitale, siamo costretti a prendere la funivia, che ci porta ad oltre trecento metri d’altezza. Il monumento principale, largo alla base, dove ospita un’esposizione dei principali avvenimenti storici del paese, e sempre più stretto nei punti più alti, si sviluppa con la forma di una grande foglia di palma a tre punte, ed è alto abbastanza da perdersi tra le nuvole.
Nonostante la brezza che soffia insistente a queste alture, una fiamma eterna brucia alla base del grosso monumento che, oltre all’esposizione, ospita anche una cripta e un museo. Ed è proprio qui che, dopo aver preso coscienza dell’importanza di questa lunga guerra identitaria che ha lacerato l’Algeria nella seconda metà del Novecento, salutiamo Kaltoum. Dobbiamo infatti incontrare Hadi che, con fare misterioso, ci ha chiamati per comunicarci di avere una sorpresa in serbo per noi. Ci dirigiamo incuriositi nei pressi del porto, dove ci sta aspettando a bordo della sua Renault. Ci fa segno di salire. “Spero vi piaccia la musica tradizionale algerina…” esordisce. “…perché trascorreremo una notte all’insegna del ritmo Diwan e Gnawa”. Nasri sembra sapere di cosa stia parlando, perché esplode in un visibilio di entusiasmo ed euforia, accentuati dalle risa di Hadi. Li guardo perplessi, in attesa di una delucidazione, finché Nasri non mi spiega che si trattano delle musiche più tradizionali di tutto il Nord Africa magrebino, e di particolare successo in Algeria, dove hanno influenzato autori del calibro di Cheb Khaled, Cheb Mami e Rachid Taha, tra i più noti artisti del mondo arabo.
Finalmente, posso unirmi anche io alla festosità dei due, che non hanno smesso un attimo di ridere e tirarsi pacche sulle spalle. Nonostante non sia un abituale seguace di Cheb Khaled e della musica popolare algerina in generale, sono felice di poter assistere a qualcosa di inusuale, e a prova di ciò, Hadi ci comunica che il concerto si sarebbe tenuto sulla collina più alta della città, con vista sulle luci e il porto di Algeri.
Apprendo che si parla di musica Gnawa per designare un cantante uomo, e Gnaway per le donne. Probabilmente, l’etimologia della parola risale alla fusione tra le parole “ghany”, che in arabo vuol dire “ricco”, e “Ghana”, il noto stato dell’Africa centrale. La musica e i rituali Gnawa sono infatti un sincretismo culturale e musicale originario dell’Africa Nera: le ondate di africani sub-sahariani che si trapiantarono secoli orsono nel nord del continente, portarono con se il loro culto animista dell’esorcismo, che col tempo si fuse con le tradizioni arabe e berbere di Marocco, Algeria e Tunisia. Queste pratiche si sono dovute trasformare e adattare all’Islam per garantire la continuità delle loro funzioni, dando vita a un sincretismo religioso-culturale fatto di balli, canti, strumenti musicali e tanti colori. E questa sera avremmo assistito alla performance di due gruppi musicali: un primo, composto da artisti senegalesi e algerini, e un secondo, da cantanti e ballerini marocchini. Dopo una breve pausa in un chiosco sulla strada, dove compriamo panini, frutta secca e bevande, ci inerpichiamo su per la Kasba, superandola e proseguendo oltre, finché, dopo una lunga e ripidissima pendenza, raggiungiamo il picco pianeggiante di Djebel Coucou. Qui, incastrato tra i declivi dell’accidentato terreno, si distingue un grosso anfiteatro romano, nonché arena del nostro spettacolo Gnawa.
Arriviamo tardi, ma non abbastanza da perderci la performance del primo gruppo, che fa la sua comparsa pochi istanti dopo di noi. Dopo aver accordato i propri strumenti, i cinque componenti della band cominciano ad intonare le loro melodie. Melodie che a gran parte di noi europei potrebbero apparire semplici e meccaniche, ma cariche allo stesso tempo di ritmi accattivanti e di voci incomprensibili, ma intense e struggenti. Ancora non siamo entrati nel vivo del concerto, ma le persone tutto intorno a me scandiscono le prime note picchiettando ritmicamente le mani sulle ginocchia e battendo le scarpe sui grossi gradoni di pietra. Le monete tintinnano nelle tasche, accompagnate dallo scampanellio delle chiavi.
Le teste cominciano a ondeggiare e alcuni battono le mani: tutto serve a sbarazzarsi delle preoccupazioni e far pulsare il sangue, il ritmo è percepibile come un eco che rimbalza nelle loro anime e mi contagia nell’allegria e nei movimenti. La musica scandisce parole berbere e arabe, ma anche francesi e spagnole, e celebra canzoni d’amore: sembra quasi che le loro note nascano e vivano nel momento stesso delle loro esecuzioni, durante le quali la figura del compositore e dell’interprete sono riunite nella stessa persona. È interessante vedere con quanta abilità, tutti e cinque, riescano a dare vita a improvvisazioni di successo e acclamate dal pubblico, che alle volte si alza in piedi incalzando il ritmo a colpi di battiti di mani e piedi. Il culmine viene raggiunto conl’introduzione del darbouka, il famosissimo tamburello arabo, che crea impetuose onde ritmiche aizzando ancor di più gli spettatori, ormai estasiati e in furore.
I lunghi brani proseguono per oltre un’ora finché, esausti e ormai senza voce, si ritirano dal palco, accompagnati dagli applausi di un pubblico in visibilio. Sono circa le ventidue, la notte è appena incominciata ma le stelle brillano come diamanti su un cielo fatto ancora più scuro dal neon delle mille insegne luminose del palco. Dietro, la città non smette di ronzare, e all’orizzonte, nei piccoli varchi che si aprono tra i cementi delle costruzioni, s’intuisce, più che vedere, il mare nero come la pece. Il seguente gruppo non si fa aspettare a lungo, ed eccoli, dopo circa una quindicina di minuti, sfilare nei loro lunghi e vistosi abiti tradizionali. Il drappello è formato da una decina di uomini e una donna velata solo parzialmente, tutti ammantati in pompose tuniche vermiglie, rifinite con delicati dettagli floreali. Il loro primo brano, dettato da un crescendo di battiti di darbouka e doholla, un tamburo a calice simile al primo, ma di dimensioni maggiori, celebra l’amore e i valori morali, le usanze e i riti della tradizione berbera.
La donna intona una cantilena le cui parole sono appena percettibili, guidata dai colpi ritmici delle grancasse. Accompagnando le note con lenti movimenti dettati dalle percussioni, la giovane ritualizza il sacrificio primordiale e la genesi dell’universo, ricordando le loro antiche origini migranti. Man mano che il ritmo si fa più insistente, i suoi movimenti si arricchiscono di volteggi e acrobazie, che esibiscono al vento l’elegante tannura, la lunga gonna tradizionale. Ed ecco che la danza, ora più passionale, rappresenta l’amore per la terra e per le proprie origini. Uno ad uno si uniscono alla danza anche i dieci uomini, senza tuttavia abbandonare i propri strumenti: chi seduto, a causa della pesantezza dei doholla, chi in piedi. I danzatori sembrano ormai impossessati dalla musica, che li guida fino ad acquisire un ritmo incalzante, che culmina nella trasformazione dei ballerini in un caleidoscopio di forme colorate. E tra danze e rituali, vengono intonate le Sure del Corano con il richiamo alla preghiera; dopodiché gli aspetti simbolici della gestualità esoterica si trasformano in uno spettacolo nel quale la coreografia mette in evidenza la figura della donna, che con la sua tannura esalta il gioco della rotazione. Ancora una volta il pubblico intorno a me non riesce a contenersi: molti si alzano e danno sfogo alla passione travolgente della musica, altri ancora scendono nel piccolo spazio che separa la gradinata dal palco, e si lanciano in danze infervorite.
I musicisti e ballerini costruiscono ora uno straordinario percorso mistico, attraverso la ripetizione quasi ossessiva di rotazioni del corpo e delle scintillanti tuniche, che riproduce il cammino del sole e degli astri. Con rapidità ritmica, la ballerina gira su se stessa rappresentando il sole, mentre gli altri danzatori vorticano intorno a lei in senso antiorario come gli astri. In realtà queste danze e musiche simboleggiano il rapporto tra cielo e terra, tra corpo e anima, tra Dio e uomo, e ballando si finisce per generare uno stato di estasi rituale per mettersi in comunicazione con Dio, il cosmo, fino a conoscere la più alta realizzazione spirituale ed accedere alla coscienza della realtà. E quindi, raggiunto un estremo livello di sovreccitazione, la donna si sfila il velo dal capo, lasciando ricadere i lunghissimi capelli lungo tutto il corpo, ormai in balia di spasmodici movimenti meccanici.
Come una miccia che scatena una reazione a catena, l’intero anfiteatro si riversa nella piccola piazzetta sotto il palco, ormai in preda alle convulsioni e a un esagerato desiderio di scatenarsi e ballare. Tutto succede così rapidamente, che quasi non mi rendo conto di esserci anch’io lì, in mezzo a quella mischia scatenata, dando libero sfogo a quel ritmo che da ormai oltre un’ora tentavo di reprimere. Ho perso di vista Hadi e Nasri, ma non mi importa; e a nessuno sembra importare cosa stia succedendo intorno a sé: donne, uomini, ragazzi e persino bambini, ciascuno è isolato nel suo mondo, si lascia guidare da movimenti ormai involontari, incuranti del sudore che zampilla sui volti affannati e contorti dalle smorfie. I danzatori si dispongono ora in cerchio e procedono saltando e ondeggiando violentemente le teste in fila indiana, ognuno con la mano destra nella mano del danzatore precedente, e la sinistra che non smette un solo attimo di dettare il ritmo sui tamburi di legno. Durante il rituale più persone si alternano nel ruolo di comandante in testa alla fila, e la danza non sembra avere regole precise, ma alla fine sarà sempre la donna a prendere il sopravvento nelle sue eleganti vesti, rompendo la fila e tornando a dettare i movimenti.
Le canzoni, seppur numerose, non vengono mai interrotte da momenti di silenzio, perché ciò comporterebbe la rottura di un incantesimo, di una cerimonia. Danziamo per oltre un’ora, e nonostante la stanchezza sia visibile sui volti stravolti dalla fatica, nessuno sembra voler smettere. È ormai mezzanotte quando la giovane cantante intraprende la celebrazione di chiusura del concerto, ed ecco che tutto sembra tornare alla normalità. I vestiti sono ormai un tutt’uno con la pelle, intirizzita dalle fievoli brezze provenienti dal cielo stellato, e un leggero senso di imbarazzo sembra impossessarsi di tutti noi, ora che la musica ha smesso di guidarci:nell’intimità del momento, credo sia stata una delle notti più emozionanti della mia vita.
Il mattino seguente è la stanchezza ad avere la meglio su di noi, e sono già le dieci quando decidiamo di lasciare casa. Anche oggi Hadi ha un appuntamento all’amministrazione municipale per sbrigare le ultimeformalità del passaggio di proprietà, e questa volta ci lascia nei pressi della Kasba, che ancora non abbiamo visitato. Caratterizzato da vicoli labirintici e case pittoresche, questo antico quartiere venne fondato sulle rovine della vecchia colonia romana di Icosium. Si tratta di una piccola città semi-autonoma che, costruita su una collina, scende verso il mare. Di conseguenza la Kasba è divisa in due piccoli quartieri: la città bassa e la città alta. Ed è proprio da quest’ultima che cominciamo la nostra visita, alle porte delle antiche mura protettive risalenti al XVII secolo.
La caratteristica più sorprendente di questo immenso e tortuoso quartiere, nonché cuore pulsante della città, è l’inclinazione del terreno. Con un dislivello tra la parte alta e quella bassa di circa centoventi metri, alcuni vicoli sarebbero impercorribili senza l’aiuto degli arrugginiti corrimano presenti su alcune pareti delle abitazioni. Più scendiamo verso il basso, più il pendio si fa ripido, tanto che la maggior parte delle strade sono scavate in modo tale da ottenere gradini e facilitarne il percorso. Ed è proprio questa la zona più antica: qui si trovano le prestigiose moschee di Ketchaoua, fatta costruire nel lontano 1794 e fiancheggiata da due fatiscenti ma imponenti minareti, quella di el-Djedid, ancor più antica, risalente al dominio ottomano del 1600; e ancora, la moschea di Ali Betchnin, che con la sua grande cupola ovoidale svetta su tutte, e infine la più antica di tutte, quella di el-Kebir, voluta dall’almoravide Ibn Tachfin agli inizi del XVI secolo.
Un paio di volte ci imbattiamo in anziani signori alla guida di muli, gli unici veri mezzi capaci di servire queste tortuose stradine: lo stesso smaltimento dei rifiuti, come possiamo constatare, è affidato alla pazienza di questi animali che, carichi di sacchi, percorrono instancabili il terreno accidentato su e giù numerose volte al giorno. Il nostro tempo a disposizione è tanto, e non abbiamo intenzione di lasciarci sfuggire niente: dopo aver visitato il Palazzo d’Estate del Bey d’Algeria, circondato da giardini e adornato da colorate finestre rettangolari, ci lasciamo catturare dal fascino della residenza di Jenina: risalente al XVI secolo, costituì il polo del potere sultanale fino al 1817, quando cadde in rovina. Distrutto dall’incendio del 1844, purtroppo non ne rimane che una modesta parte, che lascia tuttavia presagire la maestosità dei suoi interni durante il suo periodo di funzione.
Poco distante si erge invece la seconda residenza del Bey, che ospita oggi il Teatro Nazionale algerino: restaurato di recente, rappresenta una delle ultime vestigia dell’alta Kasba. Ricco di murales di marmo scolpito, arabeschi, un cortile con fontane e tralicci di legno lavorato, questo complesso di edifici comprende tre palazzi e sei douerates (case più piccole), tutti arredati in maniera raffinata ed elegante, secondo i canoni del tempo: vivaci ceramiche, balaustre intarsiate, colonne di marmo e soffitti decorati.
D’un tratto noto un cambiamento repentino nello stile architettonico intorno a me: le strade si fanno più ampie e regolari, mentre gli edifici si stagliano alti e geometrici ai lati. Anche l’aria che si respira è diversa: l’incalzante brusio della città si fa sentire poco lontano, e il viavai delle persone si fa costante: siamo entrati nella zona residenziale francese. Fu proprio qui infatti, nella zona bassa della Kasba, che i coloni francesi demolirono gran parte delle abitazioni originali, per rimpiazzarle con ampi vialoni ed edifici in stile europeo. Come conseguenza di ciò, è oggi la zona del quartiere più frequentata dagli algerini, che qui hanno tutto lo spazio necessario per aprire le proprie botteghe e concludere gli affari. Decidiamo di visitare anche il mausoleo di Sidi Abderrahmane, una serie di locali e stanze sorte attorno alla tomba dell’Imam di Algeri, risalente al XVII secolo, e abbellite da diversi locali illuminati da lampade di cristallo.
Dopo aver convinto il custode della tomba a lasciarci entrare, nonostante al suo interno si stia celebrando un rituale in omaggio del defunto, ci togliamo le scarpe e percorriamo il cortile di aranci, entrando all’interno della sala principale. Il pavimento è completamente ricoperto da sfarzosi tappeti persiani, che comunicano un senso di calda accoglienza ai visitatori. Ovunque le pareti sono ricoperte di arazzi ed arabeschi, mentre al centro della stanza, impressionante, è collocata la tomba dell’Imam: più simile a una monumentale opera d’arte di legno intagliato, il sarcofago si alza dal suolo di almeno un paio di metri.
Tutto intorno, donne e uomini fanno i loro ossequi attraverso profondi inchini e baciando le assi del sacro ossario, mentre alle loro spalle un manipolo di bambini schiamazza e gioca, ignari della solennità del luogo. La sala di preghiera, adiacente alla tomba, è sostenuta da possenti pilastri collegati tra loro da archi di ceramica. Il mihrab, posto al centro della stanza, è quadrangolare e sormontato da una lanterna, che staglia i suoi giochi di luce sulle pareti di mattonelle verdi. L’architettura combina vari stili: da quello moresco a quello berbero, con elementi ottomani e persino bizantini; un mix di tecniche e tendenze ulteriormente arricchite dalla più recente reggenza francese, sotto la quale si abbatterono alcune pareti migliorandone però gli interni.
Quando usciamo, il caos cittadino sembra esplodere in tutta la sua frenesia, intensificata dal silenzio quasi mistico del mausoleo a cui si erano abituate le nostre orecchie. Ripercorriamo la città bassa fino ad arrivare in prossimità del porto e qui, raggiunta Rue Sidi Ramdane, svoltiamo nell’intricata Soustara, piena di negozietti che espongono tende di panno decorate con arabeschi e disegni floreali, e proseguiamo verso Boulevard Bab al-Oued.
Qui, vi sono anche i negozi più curati, che espongono le loro merci in casse ordinate e accuratamente impilate all’ombra di tendaggi scoloriti dal sole. I venditori ambulanti spingono i loro carretti tra la folla e ogni tanto si fermano per servire spremute, gelati, piatti di pasta o di riso, pannocchie di granturco arrostite, hummus e frittelle di falafel. Ma sono i bambini i veri protagonisti della strada: sono dappertutto, ammiccano, salutano, sorridono, corrono e saltellano allegri tra le merci esposte. In un angolo, in mezzo alla strada, vedo un gruppo di ragazzini assembrati intorno a un televisore dai colori sbiaditi, collegato a una playstation nuova di zecca.
Poco più in là, in una piazzetta alla fine della strada, un vecchietto dall’aria sognante è seduto immobile, con lo sguardo perso e una shisha fumante nella mano destra. Indifferente al tumulto di mezzi e persone che gli ruotano intorno, dai suoi occhi penetranti sembrano emergere e prendere vita le immagini senza tempo di questo medioevo caotico che lo circonda.
Sono già quasi le diciotto quando una macchina si accosta alla nostra sinistra suonando insistentemente il clacson. Mi volto e, sbalordito, non credo ai miei occhi: è Aziz che, appena arrivato in città dopo un lungo viaggio da Annaba, ci ha visti in mezzo a tutta quella folla. “Se il vostro intento era quello di non dare nell’occhio, be’, non ci siete riusciti” ridacchia dal finestrino. Ancora increduli della coincidenza del caso, saltiamo a bordo dell’auto e, dopo esserci salutati di dovere, decidiamo di chiamare Hadi. Poco dopo, riuniti tutti e quattro, decidiamo di cenare in un elegante ristorantino affacciato sulla Piazza dei Martiri, incastonata tra la Kasba e il porto, e trascorriamo la serata ricordando vecchi momenti.
Il sole cala in fretta, e la frescura spirata dal mare ci convince a rientrare a Blida, dove anche Aziz avrebbe trascorso la notte ospite di Hadi, suo amico d’infanzia. La stanchezza procurata dalle vivaci danze della sera precedente non è ancora svanita del tutto e così, con il consenso del nuovo arrivato, anch’egli stravolto dai chilometri macinati per arrivare fino ad Algeri, decidiamo di assaporarci un delizioso caffè turco sotto casa, programmando il nostro ultimo giorno nella capitale: Hadi avrebbe portato me e Nasri a Tipasa, una piccola cittadina fenicia perfettamente conservata e situata a circa settantacinque chilometri a est di Algeri, mentre Aziz avrebbe trascorso il suo unico giorno a disposizione ad Algeri, visitando un amico.
Finalmente riposati e pieni di energie, non sono neanche le otto quando ci immettiamo nell’autostrada in direzione di Orano. Mantenendo una velocità media costante di un centinaio di chilometri orari, in meno di un’ora arriviamo a destinazione. Tipasa, fondata nel 1857 e inserita nel Patrimonio dell’UNESCO nel 1982, è famosa, oltre che per le antiche rovine romane e fenicie, anche per le sconfinate e bianchissime dune sabbiose delle sue spiagge. Non a caso questi litorali furono decantati damolti poeti moderni, che descrivono la zona come una terra abitata dagli dei, perennemente baciata dal sole e profumata dagli aromi degli assenzi.
Il mare corazzato d’argento fa da sfondo a un delizioso porticciolo, mentre un faro, bianco come l’avorio, fa capolino tra le colorate barchette ormeggiate nel molo. Passeggiamo per circa un’ora tra le vie ciottolate del centro abitato, finché decidiamo di tornare al porto e noleggiare una piccola lancia: per una manciata di dinari ci assicuriamo una gita di circa mezz’ora, e così, senza perder tempo, ci lasciamo guidare dalle deboli onde del Mediterraneo fino a raggiungere la costa archeologica, situata a pochi chilometri di distanza dalla cittadina moderna.
Nonostante il tempo rimastoci sia molto ridotto, una rapida occhiata dal mare ci basta per comprendere la maestosità delle antiche rovine. E così, una volta rientrati al molo, percorriamo a piedi il sentiero sabbioso che collega la Tipasa nuova a quella antica, che si intravede poco lontano, immersa nella folta macchia mediterranea. L’ex colonia romana venne costruita su tre colline che dominavano il mare, anche se purtroppo di gran parte delle abitazioni costruite sulla collina centrale, la più alta, non resta alcuna traccia; restano invece le rovine di tre templi, oltre a numerose terme, un teatro, un anfiteatro e ben due cimiteri. Fondata con l’intento di rafforzare le tratte commerciali dell’Impero con la regione della Cabilia, venne in seguito trasformata in un baluardo inespugnabile dall’imperatore Claudio, che voleva partire da qui alla conquista della Mauritania, e raggiunse una popolazione di oltre ventimila abitanti, cifra impensabile per i tempi. A prova di ciò, sono distintamente visibili i resti dei bastioni difensivi che circondano l’intero sito fino quasi a raggiungere il porto e l’ancora perfettamente intatta Basilica di Santa Salsa: questa, scavata nella roccia e costituita da una navata centrale e due laterali, servì per secoli come luogo di fulcro della religione cristiana, sorta in seguito al dominio romano. I suoi alti colonnati di pietra, fissati su un pavimento di mosaico che solo in parte lascia presagire il passato glorioso della città, si susseguono in linea retta per oltre dieci metri, comprendendo nel proprio abbraccio numerose tombe scavate nella roccia solida. Nonostante il Cristianesimo venne introdotto fin dal III secolo d.C., quando la città divenne anche sede vescovile, gran parte della popolazione continuò a lungo a celebrare i propri riti pagani, erigendo stravaganti idoli e totem in pietra. Fu solo con l’arrivo in città della giovane ragazza cristiana di nome Salsa che, con il proprio carisma, riuscì a convertire i miscredenti, rendendo Tipasa una città a tutti gli effetti monoteista.
Nel visitare le rovine non seguiamo un percorso preciso, essendo queste sparpagliate senza un apparente ordine tra le varie colline a ridosso del Mediterraneo. In un continuo sali-e-scendi tra i malridotti viottoli di pietra, il blu cristallino del mare offre degli scorci mozzafiato, incorniciati da rigogliosi pruni e arbusti.
Il tempo trascorre, e con esso i sentieri percorsi, che sembrano non finire mai. Il giorno sta per concludersi, e il sole intraprende la sua lenta discesa, gettando in ogni direzione lame di luce che, per un momento, accecano la vista e guizzano dardeggianti per un’ultima volta, prima di immergersi nelle calme acque del mare. Ci sono dei momenti, durante la giornata, che sembrano volerti comunicare qualcosa: quando si avvicina il tramonto e la luce scende obliqua e rossastra giù, nelle valli, e in alto, sui tetti delle alture, riverberandosi nelle acque appena increspate, un tale incanto viene sprigionato, che si desidera che quel momento non finisca mai. Quell’arco di cielo che il disco solare deve ancora percorrere rappresenta per me uno di questi momenti, complice forse il fatto che sarà il mio ultimo tramonto in queste terre che hanno saputo regalarmi tante emozioni. Quell’attimo prima di scomparire dietro le sagome scure disegnate al mare, un solo attimo, prima che la brezza fresca e limpida della sera annunci la fine di un’altra giornata.
Sono quegli istanti senza tempo, e probabilmente anche fuori dal tempo: l’anima gusta quelle emozioni con intensità voluttuosa, le assorbe e le fa proprie, conservandole avidamente nel forziere dei ricordi, quei ricordi che per quanto il tempo trascorra, non potranno più essere cancellati. È davvero un quadro bellissimo quello che il mio sguardo sta incorniciando, e che si conclude solo con la comparsa del disco velato della luna, che fa la sua timida apparizione ad oriente. Nasri e Hadi sono ritti e silenziosi affianco a me, ammirando anch’essi gli effetti insoliti di un panorama che va perdendosi nel crepuscolo nebbioso che scende, imperterrito, assumendo sfumature sempre più cupe. I resti di pietra e i sentieri si intravedonoappena sotto il chiarore delle ultime luci. “Meglio tornare alla macchina”, mi precede Hadi.
Le nostre ore in Algeria sono giunte al termine. Con immenso rammarico dobbiamo salutare Hadi, e saltiamo a bordo della Renault di Aziz, che ci avrebbe accompagnati fino ad Annaba. Qui, avremmo contattato Mohammed, il taxista, che ci avrebbe infine riportati a Tunisi. È una frattura, quella che sto vivendo, tra due mondi: quello reale, e quello in cui viaggiando ho incontrato sognatori, uomini e donne che credono con testardaggine nei sogni. Li mantengono, li coltivano, li condividono, li moltiplicano.
E anche io, umilmente, a modo mio, ho fatto lo stesso. In ogni istante di questo viaggio ho trovato una storia da imparare: ogni tanto mi sono lasciato trascinare in un bar sul ciglio della strada, mi sono seduto ad un tavolo in penombra e ho osservato le persone, le ho ascoltate.
Perché in fondo viaggiare è questo, è una scuola di umiltà, fa toccare con mano i limiti della propria comprensione, la precarietà degli schemi e degli strumenti con cui una persona presume di comprenderne un’altra. Un pensiero, un desiderio, e rieccomi seduto sul divano di casa, a riascoltare il caos delle strade caotiche, a rivivere i ricordi di tramonti infuocati, il chiacchiericcio dei mercati di strada.
In fondo, mi pare pure di percepirla questa frattura, come una curva in cui il tempo rallenta, fino a rimanere per un attimo sospeso: potrei prolungarlo, questo attimo, ma basta poco perché lo spirito ritorni pesante. Ma il ritorno esiste per una ragione, mi dico. Perché uno dei motivi più belli del viaggio è la condivisione, ed è per questo che ho deciso di condividere anche il mio.
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1 commento
Andrea
Bel racconto