Sette anni fa gironzolavamo a piedi per l’isola di Vis, la più lontana delle isole al largo di Spalato, puntando a qualche caletta un po’ più defilata. Partivamo chiaramente con il sole a picco di mezzogiorno, giusto qualche asciugamano a coprirci la testa e, manco a dirlo, niente acqua – pensavamo, illusi, che avremmo trovato una fontanella lungo la strada.
L’impresa camminante ebbe vita molto breve. Dopo tre o quattro chilometri macinati in ciabatte nell’entroterra dell’isola, sul caldo costante rilasciato dall’asfalto, issammo bandiera bianca. All’epoca di quel primissimo viaggio balcanico, iniziato giusto da un paio di giorni, sapevo solo una manciata di parole slave e nemmeno un per favore. Mi decisi a bussare alla porta di una casa isolata, l’ingresso ombreggiato da una vite rampicante.
«Voda», chiesi, con la voce incrinata dalla disperazione.
Antonio, un omone rubicondo in canottiera bianca, ci accolse come dei figli tornati a casa. Ma dovevamo fermarci a rinfrescarci un po’, per due chiacchiere, sotto il pergolato del cortile. Con quel nome, Antonio non poteva che avere origini italiane. Veneziane, per la precisione: suo nonno era nato a Venezia, trasferitosi in Dalmazia per affari, ma né lui né il padre avevano mai avuto intenzione di tornare.
Il suo italiano vacillava un po’ – d’altronde non lo parlava da una vita, la moglie era croata. E ci stava preparando qualcosa da assaggiare. Antonio mimò un cestino pieno, ma gli mancavano le parole: ci fece segno di aspettare, sarebbe stata una bella sorpresa.
Noi cinque sbarbati affondavamo in quelle seggioline al fresco del pergolato, quando improvvisamente la donna comparì, portando, in effetti, un cestino pieno.
Antonio si riempì d’orgoglio, e finalmente gli tornò la parola che cercava. Indicando la moglie col cestino, declamò fiero, a gran voce:
«Figa!»
Scoppiammo a ridere. Ma cosa…?
La moglie ci distribuì manciate di fichi verdi, dolcissimi, come ricompensa per la fatica di aver bussato a quella porta. Antonio non si ricordava come dire fichi in italiano e figa era il suo miglior tentativo: la moglie c’era finita in mezzo per sbaglio. Ma, nel dubbio, glielo confermammo: una bellissima donna, e fichi deliziosi. Per far contenti tutti.
«Feigen, smokve!»
Vi ho raccontato questo primo incontro con l’ospitalità croata perché, un paio di settimane fa, ho avuto un dejà-vù: un altro invito a sorpresa, sempre in Dalmazia, ma su un’isola diversa. Eravamo sulla piccola Murter, che in italiano ha l’infelice nome di Morter e continuerò pertanto a chiamare Murter pur non capacitandomi di come ci sia qualcuno che ha ancora il coraggio di chiamarla Morter. Tu guarda che mondo.
Di ritorno da un trekking sul massiccio del Velebit, arriviamo sulla costa occidentale di Murter e passiamo la notte su una spiaggetta ombreggiata da qualche pino, tranquillissima e lontana dai centri abitati, frequentata all’alba da qualche arzilla pensionata croata, qualche ciclista tedesco, un paio di runner e padroni di cani. Ancora alle dieci la spiaggia è semideserta, e i pochi che si buttano timidamente in acqua rimangono ben a distanza gli uni dagli altri, per le norme anti-COVID.
Ci si avvicina pericolosamente solo una vecchietta sorridente.
«Dobar dan», le diciamo in coro.
Lei non manca di correggere il nostro croato essenziale, stroncando anche il più vigoroso degli entusiasmi.
«Dobro jutro, jutro! Nije dobar dan».
Manco i saluti. Dei cani, siamo. Si dice buon mattino, non buon giorno: ignoranza completa. Vede le nostre tendine dietro i pini e sorride. Come tutti i croati, sa anche qualche parola di italiano, e iniziamo a chiacchierare un po’ del più e del meno, a cui lei risponde sempre con «Belissimo». Finché non le mancano le parole: le viene spontaneamente da integrare con il tedesco. Come molti croati e balcanici della sua generazione, ha lavorato in Germania e ora è tornata sull’isola per godersi la pensione.
Sembra un po’ la capa della spiaggia, quella che conosce tutti e parla con tutti. Fieri di aver avuto la sua approvazione, la salutiamo con affetto, e pensiamo sia finita lì. Ma, dopo una decina di minuti, torna più motivata per dirci una sola parola, che ripete a oltranza e completamente fuori contesto:
«Feigen, Feigen!»
Nessuno capisce. Che lingua è? Tedesco, forse? Nemmeno Prince of Persia, il nostro interprete tedesco-italiano, è sicuro di aver sentito bene.
Cosa ci sta dicendo? La vecchietta rincara la dose:
«Feigen, smokve!»
Al terzo tentativo, Prince capisce: «Feigen… sono i fichi, credo».
Ha un albero di fichi a casa sua. Casa sua non è lontana. Ci sta invitando per assaggiarli.
Si può rifiutare un invito così dolce, per giunta per una seconda colazione a base di fichi? Certo che no. In queste situazioni, la risposta è per definizione un sì: è il momento preciso del viaggio in cui succedono cose e le porte si aprono una dopo l’altra, con una naturalezza impressionante, come se tutto fosse stato già architettato a priori da qualcuno o qualcosa.
Seguiamo Đurđa (si legge: Giurgia) e sua cugina Nena lungo una mulattiera bianchissima e polverosa, che si snoda in mezzo agli uliveti dell’isola. Come al solito, basta un solo passo verso est e non c’è più da fidarsi sulle indicazioni di tempo: il vicino diventa tranquillamente una mezz’oretta a piedi. Senza volerlo, attraversiamo tutta l’isola in larghezza, finché non entriamo nel centro abitato di Jezera, dove vivono Đurđa e Nena.
Tra vecchie case in pietra chiara spunta la sua, a un piano, restaurata di fresco. È un orgoglio per le due signore mostrarci il giardino e il frutto delle loro fatiche. Nel cortiletto, Đurđa pigia un bottone e apre la serranda di un piccolo garage, dov’è già allestito un bel tavolo di plastica con le sedie, che aspetta solo dei commensali. In un misto di russo, tedesco e italiano, chiacchieriamo in maniera sempre più concitata, mentre sulla tavola spunta, piatto dopo piatto, una colazione in piena regola: caffè non filtrato, latte, una montagna di fichi che ingurgitiamo con avidità e una torta ai lamponi fatta in casa.
Đurđa e Nena hanno lavorato per cinquant’anni in Germania. Il doppio della mia intera vita in una fabbrica di una piccola città, quando fino a sedici anni hanno vissuto tra fichi e oleandri, le pietre abbaglianti colpite dal sole, l’acqua cristallina, verde, che sembra di vetro. Dai loro sedici anni, sono tornate definitivamente solo qualche anno fa, in tempo per godersi il clima mite dell’isola, in pensione, che si dice proprio così in troppe lingue, come per un’inerzia stanca: «penzija». In fabbrica si era sempre tra balcanici, o al massimo con dei polacchi o russi – quante risate, con le altre russe! «I migliori anni», ridono Nena e Đurđa. Gli ultimi anni su suolo tedesco li hanno passati facendo un lavoro meno faticoso, in attesa della linea magica della pensione, lavorando come badanti. I loro figli stanno là, in Germanija, si sono fatti una nuova vita, e tornano in Croazia solo per le vacanze.
La casa odora ancora di nuovo. È vuota, come una seconda casa mai veramente vissuta. Le pareti sono di un rosa pesca, fresche di intonaco, e i mobili sembrano appoggiati lì solo da qualche mese. Il calendario è in tedesco, fermo a dicembre 2019, ma la mascherina appoggiata nel centrotavola ha i colori della bandiera croata e la scritta Hrvatska. In ogni stanza, in un angolo, un quadretto dedicato alla Madonna, che Đurđa ringrazia e benedice quando la indichiamo. Un po’ come l’angolo bello di certe case ortodosse della Russia, o della Georgia, ma qui siamo nella cattolicissima Croazia, dove la religione rievoca fantasmi e fanatismi, e mi inquieta sempre un po’. Nel tedesco di Đurđa, ma soprattutto in quello di Nena, c’è tutta la storia delle loro vite: amici, contatti, datori di lavoro con cui si parlava slavo, non tedesco, mai tedesco. Più raccontano a Prince, che sostiene la conversazione senza mancare un colpo, più capisco, disseppellendo il mio scarno tedesco di gioventù. Come già con altri balcanici – a Mostar, nel 2013, contrattai una stanza alla stazione in solo tedesco, con una bosniaca che aveva lavorato trent’anni in Svizzera; in Kosovo, nei pressi del confine serbo, non c’era verso di parlare altra lingua fuori dal tedesco, con chi ci tirava su in autostop -, piano piano adeguo l’orecchio a quelle vocali strambe, sempre aperte, dove Österreich suona più Esterreich e tutte le difficoltà grammaticali su cui avevo sudato a scuola scompaiono come per magia, in frasi piane, cristalline, sagaci.
Non è doloroso parlarlo per loro, anzi. Nei nostri discorsi, pilotati da Prince e che io traduco un tanto al chilo a Pikkia Stinkij (che per contro parla un francese eccellente, ma kein Deutsch), emerge a poco a poco la loro opinione grandiosa della Germania. Chissà se per onestà, per autoconvincimento, per abitudine, o se genuina. Mi sembra di sentire le conferenze di Alessandro Barbero sui nostri emigrati che tornavano dal Nord Europa. «Funziona tutto», dicevano loro. «Pagano bene».
«Precisi, precisissimi, questi nijemci», dice Đurđa. Mi guarda, mi sorride, e le viene da parlare in croato.
Prince mi interrompe: «Ma di chi stiamo parlando, scusa?»
«Ma dei tedeschi! Sempre loro. Si dice nijemci. Ha detto che sono precisi».
Il quadro che dipingono è un po’ retorico, accorato, ma non mi convince. Non è la prima volta che lo raccontano, è già ben collaudato: la Germania le ha dato tutto. Uno stipendio, possibilità, amici, e poi i tedeschi sono accoglienti, Nette Leute, e il clima no, non è così male. Detto da una casetta di pietra bianca, tra gli ulivi e gli oleandri, mangiando fichi sotto il cielo blu profondo della Dalmazia, non le credo.
Rimaniamo a sorseggiare il nostro tazzone di caffè balcanico micidiale, noncuranti delle tende abbandonate a sé stesse dietro la spiaggetta, perché il momento va vissuto fino in fondo. Spaziamo di argomento in argomento e, dopo la Germania e i fantomatici nijemci, è il turno dell’Unione Europea. Cosa ne pensano i croati?
«Così così», ci dice lei. Si sentono piccoli, governati dalla Germania e dalla Francia. «Ma la vita è meglio di prima, sì, sì». Đurđa ci espone un copione già sentito in altri Paesi di recente ingresso nell’Unione. «Sì, ma», dicono tutti. Eppure, perlomeno a livello di offerta turistica e infrastrutture nelle città principali, rispetto a sette anni fa mi sembra che si siano fatti passi da gigante (in avanti, s’intende). A fine luglio del 2013 la Croazia era entrata ufficialmente da meno di un mese e mi sembra, oggi, quasi un altro Paese.
Oggi i nijemci invadono le coste del suo Paese ogni estate con i loro van familiari, le mountain bike e le maxi tende da campeggio. Mi chiedo, per la vita che fa – spiaggia solo all’alba e al tramonto, poi relazioni sociali in giro per la città e lavori nell’orto -, se abbia un’idea di quanti siano. Dall’ingorgo di auto alla frontiera slovena, dove oltre a noi e dei poveri belgi c’erano solo macchinoni targati D, non so che opinione abbia Đurđa di questo fenomeno di massa tutto Deutsch. Il turismo si adegua, nei prezzi e nell’offerta. In un ristorante ci hanno detto «scusate, ho solo i menù in croato o in tedesco». Ma magari ne è genuinamente felice: i tedeschi vengono a vedere quanto è bello il suo Paese, come si sta bene. Vengono a restituire in denaro il lavoro che lei ha prestato per cinquant’anni. Più persone con cui chiacchierare in spiaggia – ma alla fine per colazione ha invitato noi, tre italiani spettinati e stravolti, che lì per lì non capivano nemmeno cosa fossero i Feigen.
Sono le dieci ed è ora della rakija. Ne prende una buona, fatta in casa da un suo amico, che ci mette le alghe del mare. Sul tavolo arriva una bottiglia ghiacciata, con le goccioline che screziano il profilo verde dell’alga nel magico liquido. Tiro un sospiro per farmi forza. Detesto i superalcolici, ma non posso rifiutare dopo tutto quello che hanno fatto per noi. Bicchierini per tutti e via, si corregge il caffè con un brindisi sentito, come da noi non se ne fanno più. Le due cugine la buttano giù senza scomporsi, come ne hanno buttata giù a tonnellate in quasi settant’anni di vita. Io la sorseggio poco a poco senza dare nell’occhio, poi butto giù quel che resta alla russa, in apnea.
Finiamo il tour della casa e del giardino, dove vive una tartaruga trovata per strada da Nena. Un orto ordinato, il fico, l’ulivo. Gli oleandri, i cetrioli, i pomodori. Una casa modesta ma dove c’è tutto quello che serve. Ci hanno passato la quarantena, loro due insieme, anche se sull’isola pare sia stata abbastanza tranquilla la situazione. Nena coglie gli ultimi fichi dalla pianta e riempie due sacchetti trasparenti: saranno minimo tre chili di fichi, che non so né come né quando riusciremo a smaltire. Ma, ancora, non c’è verso di rifiutare: è il benvenuto sull’isola.
Il sole ormai è alto, è ora di tornare alle tende, sempre che non ce le abbiano portate via. Poi questi incontri, quando raggiungono l’apice della profondità e dell’affetto, vanno interrotti per non rovinarne il ricordo. È doloroso, ma è il modo migliore per mantenerli puri, eterni.
Ai due sacchetti di fichi si aggiunge un salame fatto in casa, dalla pasta scura, al pepe. L’ha fatto Đurđa e ce lo regala come pan di via (o, meglio, come pain de route) per il viaggio. Non sappiamo come ringraziarle. Prince prende accordi per farsi portare, verso sera, una bottiglia di quella rakija all’alga da regalare in Italia, comprandola dall’amico di Đurđa. Ma è ora di tornare. Ci avviamo per la stradina bianca, ora accecante, che gli ulivi non ombreggiano più. Il sole è verticale, i colori della baia sono più brillanti che mai, e le nostre tende sono ancora lì e tutto va meravigliosamente.
La nostra storia con Đurđa finisce in maniera bizzarra. Verso sera, ci raggiunge alle tende con una bottiglia di liquore alle ciliegie – forse non si erano capiti, chi lo sa – fatta dal suo amico, che Prince le compra. La bottiglia viene collocata sul fondo del bagaglio dell’Idea di Prince e ci segue per tutto il viaggio, tranquilla e spensierata, sopravvivendo pure alla traversata notturna Spalato – Ancona. Sulla via del ritorno, facciamo una tappa di mezza giornata a Ravenna e parcheggiamo l’auto al sole.
Quando rientriamo in macchina, appuriamo che si sta diffondendo uno strano odore di alcol, vagamente dolciastro, nell’abitacolo. Ebbene, la bottiglia si era spaccata in maniera assurda: praticamente intera, si era staccato il fondo con una precisione impressionante, quasi per nessun motivo, e non c’era più neanche una goccia di rakija rimasta. Era evaporata tutta, ma solo dopo aver impregnato la mia tenda di ciliegia.
Certe esperienze non si possono convertire in beni durevoli, che non si possono portare a casa con sé. Possono solo essere fichi, da mangiare subito fino a fare indigestione, o un salame casereccio da finire a morsi su una panchina del porticciolo.
Grazie per aver letto fin qui e alla prossima avventura.
Il 30 luglio è uscito il mio libro e Đurđa non c’è, perché l’abbiamo incontrata troppo tardi. Ma in compenso in Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici ci sono tante storie dalle selvaticherie che ho fatto nel mondo in questi anni. Dai primi autostop nelle Cicladi alla Pamir Highway, dagli incontri in Palestina alle tratte più isolate della Transiberiana.
Lo trovate in libreria, su Amazon e in tutti gli store online, in cartaceo e ebook.
Buona lettura!
Ele
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