Quando viaggio incontro parole. Alcune scivolano via subito, altre rimangono impigliate nella mente. Le soppeso, le ascolto, a volte torno a casa e le studio: i loro rimandi tra culture lontanissime nello spazio e nel tempo mi tengono col fiato sospeso. È così che viaggio anche dalla mia stanza, ma intensissimamente.
Ogni etimologia nasce con una storia, in un preciso momento di viaggio; ha un sapore, un colore, il viso di una persona e in un caso persino una musica unica. Da lì si riverbera nell’aria e crea connessioni potentissime: marchio inequivocabile di quanto la nostra Europa sia da sempre un tutt’uno con l’Est e il Medio Oriente.
Questa volta vi accompagno per mano attraverso 6 piccole storie di parole che spero vi illuminino un po’ la giornata, sentendovi in viaggio per terre esotiche ad ogni parola che pronunciate.
Me l’avete chiesto a gran voce dopo una fortunata serie di storie su Instagram in cui vi raccontavo le bizzarre etimologie delle parole che incontravo in viaggio, che più spesso di quanto crediamo sono dei prestiti linguistici a volte davvero antichi.
Andiamo?
Ps. Nel post do per scontati alcuni concetti linguistici base, come per esempio quello di “lingua indeuropea”. Se questo concetto ti è nuovo o vuoi approfondire, questa splendida illustrazione è il punto giusto da cui partire.
1. Lobio (ლობიო), ‘fagiolo’. Georgiano
Era capodanno quando, davanti a una sfilata colossale di portate armene in un salottino delle periferie di Yerevan, dissi ai miei compagni di viaggio che un piatto sembrava proprio il lobio georgiano. Al sentire quella parola magica, che in armeno in realtà sarebbe լուբիա (lubia), la madre di Shushan quasi si commosse: Eleonora sa l’armeno!
Scoppiammo a ridere ma non aggiunsi nulla, per timore di offendere la secolare rivalità culinaria tra i popoli caucasici, e il fatto morì lì.
Il mio primo incontro col meraviglioso mondo del lobio (ლობიო) e derivati è stato infatti in Georgia. Davanti al vetro delle panetterie georgiane cariche di pani di tutte le dimensioni, si impara in fretta che non è tutto khachapuri quel che luccica. Una splendida variante della celebre focaccia georgiana è appunto il lobiani, un pane riempito di una strabiliante pasta di fagioli molto pepata. La semplicità degli ingredienti non deve trarre in inganno: se di buona qualità e appena sfornato, è il piatto degli dei. Lobio e basta invece significa “fagiolo”, ma indica anche un altro cavallo di battaglia della cucina georgiana, una pasta, a volte presentata in forma di zuppa o addirittura quasi di insalata, a base di fagioli. Il tipico cibo buono della mamma o la schiscetta da ufficio dei georgiani.
Quel capodanno mi si accese una lampadina sentendo che anche in armeno esisteva lubia: evidentemente la parola non poteva essere originaria georgiana o armena se entrambe le lingue la utilizzavano, per scarso prestigio di entrambe l’una sull’altra. Finché a settembre non sono arrivata per la prima volta nella mia vita in Iran.
Quando ho la fortuna di viaggiare per lavoro e avere una guida locale, le chiedo sempre di ordinare al posto mio. Con un po’ di imbarazzo, a Esfahan dico a Reza che mi piace tutto, e di prendere quello che lui avrebbe preso per se stesso. Nell’ordinare un piatto a base di fagioli, lo sento pronunciare loviya (لوبیا): eureka!
Indago immediatamente e scopro che anche in azero si dice lobya. Transcaucasia conquistata.
Ma la parola, che a queste lingue del Caucaso è sicuramente arrivata attraverso il persiano, non è affatto di origine orientale, ma decisamente più vicina a noi. A passarla agli arabi furono proprio i greci, con il loro λοβός (lobos), che significava “guscio di baccello, buccia”, ma anche “lobo dell’orecchio“; la parola sembra tra l’altro imparentata con λέπος, “buccia, guscio”, e altri verbi come λέπω (‘sbucciare, scrostare’). E non speriamo di averla scampata in Italiano: parole come lobo, lobotomia, bilobo e così via derivano dal latino lobus che a sua volta deriva dal greco.
Dal greco (e poi dal persiano) questa parola ha tantissimi discendenti:
- → Arabo: لوبيا (lūbiyā), لوبياء (lūbiyāʾ), لوباء (lūbāʾ)
- → Spagnolo: alubia
- → Azerbaijano: lobya
- → Georgiano: ლობიო (lobio)
- → Hindi: लोबिया (lobiyā)
- → Medio Armeno: լովիաս (lovias), լովէստ (lovēst), լուպիա (lupia), լուպիայ (lupiay),
լուպիաս (lupias), լուվիաս (luvias), լօվիաս (lōvias)- Armeno: լուբիա (lubia)
- → Armeno: լոբի (lobi)
- → Punjabi: ਲੋਬੀਆ (lobīā)
- → Turco: lobya
- → Urdu: لوبیا (lobiyā)
2. Shater (шатёр), ‘tenda’. Russo
Andavo a caccia di una storia letta nel (meraviglioso) libro di Ludmila Ulitskaya che in italiano è stato tradotto come Una storia russa, quando mi sono imbattuta nel vero titolo di questo romanzo: Zelёnnyj shatёr, ‘la tenda verde’.
Shatёr (шатёр)? E io che in russo per ‘tenda’ conoscevo solo palatka. Parola che suona terribilmente di straniero – e, più precisamente, di Asia Centrale. Mi è tornato immediatamente in mente Khan Shatyr, il capolavoro di Norman Foster ad Astana (oggi Nur-Sultan, la nuova capitale del Kazakistan): un colossale centro commerciale costruito a forma di tenda, che spicca a uno degli estremi della lunghissima Nur-zhol, la grossa arteria lunga vari km su cui sono collocati come pedine tutti gli edifici firmati dalle archistar voluti da Nazarbayev per la sua cattedrale nel deserto.
Che sia una parola di origine centroasiatica, quindi turco-mongola? Corro a cercare.
La parola arriva in russo dalle lingue turche dell’Asia Centrale, come attestano il kazako shаtуr, ‘tenda’, il kirghiso chatyr, il turco, l’azero, l’uiguro, il tataro e l’altaico chadyr, ‘tenda, tendone’ e altre lingue turche. La parola si è diffusa in forme simili in molte altre lingue slave e dell’europa orientale, come l’ucraino, il bulgaro, il serbocroato, lo slovacco, lo sloveno šátor, il polacco szatr e persino in albanese çadër (‘ombrello, tenda’) e in ungherese szatra.
La vera origine però non è turca, bensì persiana (e quindi indeuropea) da čаtr, čader, che significa proprio ‘tenda’ sia nel senso di ‘tendaggio’, sia in quello di ‘tenda nomade’. Parente diretta di questa radice è la famosissima parola persiana chador, la ‘tenda’ di solito nera che copre tutto il corpo eccetto il viso indossata dalle donne iraniane più religiose.
3. Tuman (туман), ‘nebbia’. Russo
La nebbia l’ho imparata a Sakhalin. Imparata nel senso che ho capito visceralmente cos’è, l’ho vista al suo stadio massimo, quando è così fitta e spessa che a stento ti vedi le dita alla fine del braccio; quando assorbe ogni suono, quando si fa accarezzare e la vedi ondeggiare come uno spirito dai mille tentacoli sul pelo dell’acqua.
Credo sia stata Tanya a pronunciare il suo nome per prima, e non potevo desiderare che la lingua russa avesse una parola più adatta, da sussurrare con riverenza: tuman.
Appena ho sentito un suono così cupo e solenne, definitivo, ho saputo dentro di me che non poteva essere una parola slava, e sentivo dentro di me che proveniva da una terra remota, misteriosa e infelice. Probabilmente non da Sakhalin, ma da un luogo in qualche modo primordiale.
E infattituman è entrato nello slavo (russo, ucraino, bielorusso) dalle lingue turche dell’Asia Centrale e dell’Europa, sparse a macchia di leopardo un po’ dovunque nei territori dell’ex URSS: tuman in kazako, kirghiso, caraciai-balcaro e persino karaimo; duman invece in turco, azero e tataro di Crimea.
La storia non finisce però qui: alcuni tracciano la sua origine ancora più in profondità, precisamente alla lingua avestica, lingua iranica orientale conosciuta come lingua liturgica dello Zoroastrismo, dal cui testo sacro Avesta prende il nome: dunman- ‘nebbia’, dvąnman– ‘nuvola’. Un’origine iranica, dunque, oppure un’origine slava?
Forse meno probabile ma non escludibile l’ipotesi di una pesante mutazione della radice slava dell’oscurità, in protoslavo тьма, t’ma, discendente dall’indeuropeo *temH-. Da questa radice derivano anche l’italiano tenebra, il curdo e il persiano moderno tam.
4. Nana e ananuk (անանուխ), ‘menta’. Armeno
Nané l’ho incontrata in un ostello di Yerevan, quando nella quiete dei primi giorni di gennaio ho chiacchierato con lei di come un viaggiatore vede e racconta l’Armenia. Da allora Pain de Route è stato studiato in una tesi di laurea in Olanda: tutto ciò che avessi mai scritto sull’Armenia è entrato in un database e da lì è stato analizzato e classificato. Oltre al sorriso radioso, quasi un tratto somatico in Armenia, di Nané ricordo che mi raccontò che il suo nome in armeno suona quasi come menta.
Nove mesi dopo passavo accidentalmente da Istanbul per colpa di uno scalo aereo troppo breve nel nuovissimo e sovradimensionato aeroporto di Istanbul, fiore all’occhiello della propaganda Erdoğan. Mentre mi decidevo in quale dei barettini di Balat fermarmi a bere un çay bollente nei minuscoli bicchierini turchi, notai un negozietto che vendeva caffè aromatizzato, sulle cui confezioni squillavano enormi titoli accompagnati da immagini sognanti dell’ingrediente in questione.
Fu così che mi cadde l’occhio proprio sul caffè aromatizzato alla menta, che riportava a chiare lettere il nome della mia laureanda intervistatrice armena: nane.
Che fosse un prestito armeno in turco, o il contrario? Improbabile: la radice era sicuramente più profonda. Anzi: decisamente più profonda.
La parola nana per ‘menta’ affiora grazie al tramite turco ottomano anche in qualche lingua slava, come il serbocroato e il macedone, ma il turco l’ha ricevuta dall’arabo (naʿnāʿ), che l’ha passata al persiano (na’nâ’) e persino al maltese (nagħniegħ). Ma l’arabo da chi l’ha ricevuta?
L’origine della parola è tanto antica forse quanto lo è la vita in Mesopotamia. Nana è verosimilmente una parola di origine urrita, una lingua anatolica estintasi nel 1000 a.C. parlata nell’odierna Siria del Nord. Dall’urrita la parola è arrivata all’aramaico e quindi all’ebraico e all’arabo. In antico armeno invece la parola անանուխ ananukh (e poi la variante senza a- iniziale nana) può darsi sia arrivata secoli dopo attraverso l’accadico o il siriaco, o comunque un’altra lingua tramite. L’antico armeno è infatti attestato solo dal V secolo d.C. ma è una lingua molto più antica.
Oggi in armeno la parola ananuk e nana, derivanti dalla stessa radice antichissima, indicano due tipologie di menta diverse.
5. Vişne, ‘amarena’. Turco
Sempre nello stesso baracchino che vendeva caffè, dopo l’incredibile viaggio spazio-temporale inseguendo la mia amica Nané, mi cadde l’occhio sulla parola turca vişne, ‘amarena’, pericolosamente simile al russo vishnya (вишня), ‘ciliegia’. Eppure vishnya mi era sempre suonata così slava…
Ma questa volta il contatto è avvenuto al contrario: non è stato il turco a dare questa parola alle lingue slave, ma il bulgaro a passare al turco una parola che è di origine tutta slava.
In tutte le lingue slave la parola per ‘ciliegia/amarena’ deriva dal protoslavo *višnʲa. Ma la meraviglia non si ferma qui: le radici più profonde sono probabilmente nell’indeuropeo *weyḱs- , che forse indicava una pianta simile al… vischio. Lemmi simili sono il protogermanico *wīhsilō (da cui Weichsel, un tipo di ciliegia, oltre che il nome tedesco del fiume polacco Vistola), il greco antico ἰξός e ovvimente il latino viscum.
Come tantissimi di voi mi avevano scritto su Instagram, l’italiano visciola è probabilmente un prestito del tedesco e quindi sì, imparentato alla lontana con la nostra ciliegia slava.
6. Liman, ‘porto’. Azero
Prima ancora che sentire questa parola la ascoltai in una di quelle incantevoli melodie che, mentre sudi schiacciato nella calca della metropolitana di Baku, Azerbaijan, decisamente sottodimensionata per una città così grande, ti trasportano ad altri lidi e ad altre epoche.
Proprio così: a Baku ogni fermata della metropolitana è annunciata da una manciata di secondi di musica di un compositore o cantante azero. Uno dei piccolissimi dettagli di una dolcezza e di un romanticismo estremi che sa regalare la capitale dell’Azerbaijan, sempre che non li abbiano già spazzati via per costruirci qualche grattacielo anonimo. Quella che più mi rimase impigliata nella testa, nei giorni difficili del mio soggiorno a Baku e anche più avanti, era proprio quella intitolata Limanda (‘al porto’), di Mirzə Babayev, cantante insignito del titolo Artista della repubblica socialista di Azerbaijan dagli anni ’50.
A dire la verità non avevo idea di come si chiamasse quella canzone. Facendo ricerche, però, riuscii a trovare online un’anima pia che si era presa la briga di ricollegare ogni fermata alla composizione giusta: le ascoltai tutte finché non ritrovai la mia Limanda. Già allora pensai, guardando le onde infrangersi sugli scogli, i gabbiani e le navi salpare nel nostalgico video anni ’60, che la parola per pura casualità mi ricordava il tanto tradotto λιμήν delle versioni di greco antico, che significa ‘porto’.
Ho poi scoperto che la parola è giunta molto lontano, probabilmente veicolata dal turco ottomano. È arrivata nel russo liman, che significa ‘estuario’, in rumeno liman e persino in ebraico (נָמֵל) namel, con metatesi. Ma l’origine è tutta greca, entrata nel turco tramite la forma bizantina λιμένιον.
E con questa storia finisco, sperando che vi sia piaciuto questo viaggio spazio-temporale attraverso le parole. Aspetto di sapere qual è stata l’etimologia che vi è piaciuta di più, o se ne avete scoperte anche voi viaggiando.
Vi consiglio anche di ascoltare questa puntata di Cemento, il podcast di Angelo Zinna e mio, in cui parliamo con il traduttore Francesco Peri del legame tra il viaggiare e il comunicare.
A presto,
Ele
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3 commenti
Phaedra
Eleonora, questo post e’ magnifico, davvero.
Oltre a questo, sei stata in Iran e ti invidio tantissimo. E’ in cima alla lista dei viaggi che vorrei disperatamente fare. Avrei milioni di domande da farti, a riguardo…
Eleonora
Grazie, Phaedra!
L’Iran sta sempre lì ed è un paese straordinario. Per le domande sai che sono qui, chissà se ci scriverò mai qualcosa su questo Iran 🙂