Nuovo capitolo dai diari della fuga segreta in Marocco: il Deserto e l’Atlante. Segue dai diari di viaggio #1 (Fes e Meknes) e #2 (Rabat). Seguito dal diario di viaggio #4 (Marrakesh ed Essaouira)
2.147km percorsi, due valichi dell’Atlante, sette città principali visitate, autostop nel mezzo di una tempesta di sabbia nel deserto, una tenda in riva all’Oceano, dune di sabbia dorata, gole di roccia rossa, medine labirintiche, fortezze di sabbia, piazze immense, contrattazioni sfrenate pure sui biglietti dell’autobus, casette bianche e blu, giardini lussureggianti e non è finita qui…
7. Tinejdad
Di tutte le sorprese che l’entroterra marocchino poteva offrirmi, ce n’è una che ho portato con me a lungo, in sogni, evasioni, pensieri e miraggi. Era lo ksar: una città fortificata fatta di terra e palme impastati insieme a creare un immenso castello di sabbia labirintico, dove perdersi in decine e decine di cunicoli, cortili e stanzette a pianta quadrata. Al piano terra dormono gli animali e ai piani superiori vivono le famiglie.
Alla base dell’idea della città fortezza c’è il parallelepipedo: un tunnel nero, poi uno spiazzo quadrato a cielo aperto dove affacciano le finestre delle case, poi un altro tunnel nero, e così via. Chi vive nella sabbia non ha l’acqua corrente in casa: troppo rischioso, potrebbe sciogliere lo ksar. In compenso, da qualche anno ormai c’è l’energia elettrica anche qui a Tinejdad. Il suo ksar è quasi un’eccezione: incredibilmente ben conservato.
Da altre parti, come a Goulmima, ce ne sono in rovina, erosi dal tempo. Lì per lì mi sono dispiaciuta. È un patrimonio comune che ha i giorni contati. Ma è la sua stessa natura a renderlo così: un capolavoro temporaneo, per i pochi che riusciranno a sgattaiolare nei suoi vicoli di buio e cielo di notte, di luce e vento di giorno, quando fuori l’aria raggiunge i 50°. Con cinque o sei giorni di pioggia all’anno, lentamente, anno per anno, uno ksar si scioglie, e ritorna a essere parte del terreno che l’ha creato.
Mai nessuno ha avuto la pretesa che potesse durare per sempre: scaturisce da altri mondi, dove il tempo è fatto per passare, le cose per scorrere, nulla per rimanere per sempre. Invisibile nel paesaggio, nato sapendo già che dovrà morire, abitato da un centinaio di persone che vivono immerse nella materia di cui è fatto il deserto.
8. Todra
L’apice del paesaggio estremo della zona del deserto roccioso marocchino è raggiunto dalle pareti di roccia rossa del Todra. Paesaggi lunari, piane sconfinate e montagne che assumono un colore diverso a ogni ora del giorno, piccoli arbusti, oasi di palme e campi coltivati, ksour di terra che si alzano in lontananza a difendere i villaggi: questo è il mondo non arabizzato, ancora un po’ nomade, poco islamizzato, berbero…
9. Merzouga
E alla fine siamo arrivati anche qui – alle porte del Sahara sabbioso, dove cominciano le dune d’oro.
In realtà si rimane quasi delusi. Da lontano sembrano quasi delle montagne artificiali e piccole, dipinte o appoggiate su un terreno arido e polveroso, grigio, circondato da montagne altissime. Stanno lì, finite, col loro giallo arancio che si stacca da un cielo blu profondissimo, senza neanche una nuvola.
Non è la mia prima volta nel deserto. Quella è stata indimenticabile. Era l’alba nel parco naturale di Sossusvlei, in Namibia, d’inverno: ad oggi ancora il colore più puro ed emozionante che abbia mai visto nella mia vita… ve ne parlerò, promesso.
Questa volta ho pensato di più e lasciato da parte le emozioni del primo impatto.
Di magico il deserto di sabbia ha che abbatte ogni misura spazio-temporale che l’uomo ha costruito. Rimani tu, da solo, in un mare inospitale di seducente bellezza. Le distanze quadruplicano tra teoria e pratica, il sole ti uccide mentre affondi nel fianco di una duna tentando di scalarla, non hai più alcun riferimento se non dei colori puri e il sole, che cala velocissimo e ti sta per abbandonare ai tuoi ricordi e ai tuoi miraggi…
E a lasciarmi sempre senza parole è la bidimensionalità che della sabbia monocolore riesce a creare: quando quelle conche ovali nelle fosse tra una duna e l’altra vengono rapite all’ombra, se non avessi la ragione non riusciresti a dirle concave o convesse. Si perde completamente ogni contorno e bordo. Anche dire dove finisce o inizia l’ombra diventa impossibile, perché non c’è nessun ostacolo materiale che non sia la cresta, liscia e precisissima, di una duna più alta.
Si capisce davvero il valore e l’effetto concreto del contrasto quando le ombre si allungano, diventano più piene e i colori si accendono mentre il sole li colpisce di luce sempre più calda..
Ancora impressionante è quanto ci si sente “artificiali” di fronte a così tanta purezza e semplicità: sabbia gialla e cielo blu, nient’altro. Calpestare una cresta incontaminata assume la portata tragica di un omicidio. Ogni passo che fai lascia un segno che permane finché il prossimo vento non cambierà le dune. E forse ti salverà, se non saprai più come tornare indietro…
Bene, dopo queste filosofie da bar ammetto che anche io ho ceduto e mi sono lanciata più e più volte giù dalle dune sbellicandomi dalle risate. A conti fatti, rimane sempre la parte migliore (:
10. Ait Ben Haddou
Continuiamo di autostop da Ouarzazate: siamo a un passo da Tizi N’Tichka, il valico dell’Atlante a 2 260m. Un’auto ci porta fuori dal centro cinematografico di Ouarzazate e dopo alcuni minuti due ragazzi ci tirano su di nuovo. Non vanno a Marrakech, ma a Ait Ben Haddour, 30km più avanti.
“It’s a very nice place”, dicono. E andiamo.
Lo Ksar di Ait Ben Haddour è così ben conservaoto e strategico da aver attratto decine di registi da tutto il mondo per girare film di ogni tipo, da quelli a tema biblico fino al Gladiatore e a La Mummia. Insomma, ammetterò che mi hanno fatto decine di nomi e questi due erano gli unici due che conoscevo (ma che non ho visto, ha-ha)… ma sono un cane quanto a cultura cinematografica, non prendetemi come parametro. Suonavano come titoli famosi.
Questo villaggio fortificato interamente color terra sorge a forma di cono su una collina isolata da un fiume, che sull’altra sponda crea verdissimi campi coltivabili. Dall’altro lato, un deserto roccioso e geometrico, di rocce stratificate con colori diversi: giallo, rosa, grigio, arancione…
Oggi la Casbah è praticamente disabitata e ci sono solo decine di negozietti per turisti. Devo dire in media carini, niente cinesate. I tappeti colorati sono sempre così fotogenici…!
A conti fatti, siamo capitati per caso in uno dei luoghi più suggestivi di tutto il Marocco. La Casbah più spettacolare e meglio conservata, con un panorama senza eguali, raggiungibile solo con una piccola deviazione di 9km dalla strada principale: il solito c…
11. Tizi N’Tichka
Dopo un tentato autostop in mezzo a una tempesta di sabbia, passato lo svincolo per la casbah di Ait Ben-Haddour, coperti di polvere saliamo a bordo di un suv gigante guidato da un autista marocchino noleggiato da un francese di Vichy: sedili in pelle, guida sportiva e si va dritti a Marrakech…
Per ritornare al Marocco arabo bisogna valicare l’immenso Atlante a 2.260m, circondati da picchi che raggiungono tranquillamente i 4.000.
Il vento spazza ogni cosa con furia inarrestabile e i rari alberi, nodosi e storti, trattengono piccoli cumuli di terra rossa con le radici
Pietroni rossi rotolano nelle scanalature di montagne immense e corrugatissime, mentre la strada corre sullo strapiombo, lasciandosi indietro la polvere e gli altopiani desertici.
È un attimo: Tizi N’Tichka, il valico. Uno spartiacque, un piccolo cartello in cima a questo grande muro che divide l’oceano dal Sahara. Da qui in poi la lingua torna gradatamente araba, l’oceano ricomincia a mandare perturbazioni (con moolta moderazione), rispuntano piccoli villaggi scassati coi panni stesi, piccoli arbusti, i soliti baracchini che vendono mandarini sospesi nella lieve foschia della sera. La strada scivola giù a picco tra il rosso infuocato della terra e il verde dei pini, mentre i bracci della montagna si allungano senza perdere possenza e altitudine.
Negli ultimi anni ho imparato ad apprezzare davvero la montagna. Prima la odiavo, giuro. La collegavo alle spossanti camminate di otto ore delle gite dell’oratorio, al sapore schifosamente ferroso del tonno in scatola, alle vesciche ai piedi. Il tutto senza che nessuno mi avesse mai spiegato perché si doveva andare in montagna.
Uno dei belli della montagna è che ti rimette al tuo posto. Quando pensi a come sarebbe breve il volo tra un lato e l’altro della valle, che sembra proprio lì, poche decine di metri oltre il tuo dito, i tuoi piedi sfasciati ti ricordano che in realtà sei una piccola creatura terrestre. Che devi andare piano, seguendo tutte le rughe della terra. Che farai una grande fatica, ma che la vista da lassù – le nebbie dell’oceano, le piane polverose del deserto – sarà mozzafiato.
L’Atlante (e prima di lui il Caucaso maggiore e minore, i Pirenei, e le nostre bellissime Alpi) mi ha fatto un effetto catartico. Come se ora sapessi un po’ di più cosa devo fare nel mondo. Insomma, la grande montagna parla, e tanto, soprattutto quando c’è anche un grande silenzio.
Il sole è calato, le nuvole sono rosa intensissimo e i tronchi sottili dei fiori d’agave in controluce puntellano le pendici delle montagne.
E se guardi bene vedi già laggiù, in fondo, le prime luci del grande gorgo umano, Marrakech…
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