«Perché volevo stare tranquillo». Il selvaggio vero, in Val Grande

Pubblicato il 3 Luglio 2021

Scritto da Eleonora

Per anni la Val Grande è stata per me un mito, o una leggenda da non raccontare troppo ad alta voce, di cui da piccola sfioravo le acque e i boschi densi, verde brillante, o di cui guardavo con ammirazione i poster di mio zio, dove un uomo con un cappellino fucsia un po’ anni ’80 se ne stava fiero, la gamba appoggiata su una roccia, su una vetta circondata da montagne innevate.

Il titolo diceva: «Monte Mottac».

Inconsapevolmente l’avevo vista molte volte, ma mai avvicinata davvero. Finché, tempo fa, un amico ungherese non aveva iniziato a martellarmi con quel nome: «Ma come, non lo sai? È l’area completamente selvaggia più grande delle Alpi e d’Italia. È da quando sono bambino che sogno di andarci».

Tra lui e quelle montagne in mezzo s’è messa una pandemia, per me l’impossibilità di uscire dall’Italia, e alla fine in Val Grande ci sono stata prima io. All’inizio prendendola da nord, fino al passo di Basagrana, spalancato letteralmente su tutto quell’intricato sistema di valli del Parco Val Grande, e poi da sud, con i primi sopralluoghi da Cicogna, in vista del primo weekend in montagna organizzato insieme al collettivo di guide ambientali Vette e Baite.

Il Parco Nazionale Val Grande prende il nome da una delle varie valli che compongono l’area – appunto la Val Grande. Copre un insieme di valli impervie, boscosissime, che sono state abbandonate dall’uomo nel corso del secolo scorso. Nel frattempo, la natura si è ripresa tutto, il bosco ha mangiato gli alpeggi e le baite e non vedrete pali della luce, strade o case all’infuori del paesino di Cicogna. Nonostante sia così selvaggia, la Val Grande in realtà è tutt’altro che remota: visibile dal Lago Maggiore, dal lago d’Orta, dall’Ossola e lambita dalla statale del Sempione, si trova a circa 2h di auto da Milano, a seconda dell’accesso che sceglierete. Alcune strade, come quella per Cicogna, sono strettissime, pericolose e difficili da percorrere, specie con auto grandi.

Vita lontano dalla civiltà

Montuzzo, Val Grande

Tutte le persone con cui abbiamo parlato arrivavano sempre lì: è dura, ma si vive bene, si vive tranquilli. Il caos della civiltà stordisce, dopo tanti anni passati lassù – si scende solo per necessità, se non si può fare altrimenti, ma appena arrivati si vuole già tornare.

Perché oltre alla natura selvaggia – selvaggia nel senso quasi spaventoso del termine, non nel senso bucolico e idilliaco – di speciale la Val Grande ha la gente che ha sposato il selvaggio, si è dedicata a una vita di «sviluppo più faticoso, più lento».

Andrea e Massimo hanno lasciato Novara e lavori a tempo pieno nel mondo dello spettacolo per gestire l’Ostello Val Grande, che è semplicemente il posto dove bisogna andare se si vuole provare ad approcciare l’area. Per consigli, istruzioni, mappe, ammonimenti, ma anche per sentirsi a casa, discutere di massimi sistemi, per ascoltare Massimo suonare la chitarra e bere un po’ di vino insieme.

Rolando ha lasciato una vita da camionista prima e vivaista poi per vivere di agricoltura e allevamento di capre nell’unico agriturismo del Parco. Sua figlia è stata la prima nascita a Cicogna dopo 42 anni di calma piatta. Le scuole sono a Verbania, ma Rolando ci ha rassicurato subito: «il difficile inizia quando torni a casa e chiudi la portiera dell’auto». L’agriturismo Corte Merina è semplicemente un luogo stupendo, sempre in divenire, dove minuscoli trattori salgono per sentierini scavati a braccia, vecchie carrucole lasciate dagli ex proprietari aiutano a trasportare i materiali su e giù, le capre vagano libere (alcune volevano provare a guidare il trattore!) e le cipolle crescono tranquille e ben recintate, al riparo dai loro appetiti.

Le montagne degli «jurodivye»

Velina Baserga vista dal sentiero Cicogna – di Velina

Ma quelle montagne sono magnetiche, e ce ne si accorge nel fitto della foresta, quando si intravede un camoscio o un cinghiale, o di notte, quando il nero profondo del bosco, senza il minimo pallore di una luce, sembra risucchiare lo sguardo. A confronto, il cielo stellato sembra illuminato a giorno. Nel fitto di quei boschi hanno vissuto e vivono jurodivye che abiterebbero bene un romanzo di Dostoevskij come «folli in Dio», anche se decisamente meno cristiani. Asceti, eremiti, scrittori solitari o vagabondi che sostano ora qui ora là, in vecchi alpeggi con il tetto di piode miracolosamente scampato alle intemperie.

Le loro storie sfumano in leggenda, e più contengono del magico, più spero di incontrarne uno lungo la mia strada. Un po’ come mi era capitato l’anno scorso, in cima alla Majella, in Abruzzo. Ma quando Andrea e Massimo ci hanno detto dove incontrarne uno, non ho avuto dubbi su dove volevo andare. Con Davide, guida ambientale di Vette e Baite, siamo scesi da Cicogna per un sentiero lastricato che dall’eliporto costeggia la Val Grande (quella vera e propria) a mezzacosta, attraversando alpeggi e villaggi completamente abbandonati, come Montuzzo.

«Che depressione Montuzzo» è una delle prime cose che ci dice Piero, che da vent’anni vive negli alpeggi di Velina, di cui è l’unico abitante. Come se Velina fosse una botta di vita.

A Montuzzo c’è una botte ancora in piedi con dentro un mestolo, una casetta tenuta dignitosamente, ma che enormi ragnatele segnalano che è un po’ che qualcuno non ci abita. Dentro ci sono vestiti, un bidone della pattumiera con scritto “Comune di Sesto Calende”, pentole, arnesi da lavoro e un po’ di ciarpame. Sembra lasciato lì da un paio d’anni, non molto di più. Attraversiamo un villaggio in pietra di molte case completamente divorate dalla vegetazione – agli alberi piace crescere in mezzo a quattro mura, una volta che il tetto è crollato. Vista da sotto, Montuzzo sembra una minuscola città perduta cresciuta in verticale, come mi immagino una città precolombiana abbandonata d’un tratto, per scampare a una catastrofe. Da lontano è invisibile, mangiata dal bosco, che però è recente: quando la Val Grande era abitata, una delle sue più grandi risorse era la riserva di legname infinita che aveva. I tronchi venivano buttati giù con le piene del fiume fino a Verbania, e poi, più tardi, con un sistema di carrucole e teleferiche che oggi sopravvive qui e lì, come un relitto. Ci si sente in un luogo intatto e primordiale, ma la realtà è che settant’anni fa questi luoghi erano radure, alpeggi, prati o boschi profondamente antropizzati, piantati dall’uomo per le proprie esigenze.

Il sentiero poco dopo Montuzzo diventa contrassegnato come difficile. Finché si tratta di scendere in una gola ferrata, anche con lo zainone, si può fare. Ma di fronte a una lastra di pietra su cui scroscia un inizio di cascata, mi fermo un attimo a riflettere. Catena grezza, bruna di ruggine, piantata nella roccia viva. Piccole fessure dove infilare i piedi, che qualche anima pia ha fatto zigrinate, per migliorare la presa. Che siano sicure è un’illusione, perché in ogni caso ci scroscia sopra l’acqua della cascata. In basso, la lastra scivola giù liscissima senza interruzioni, almeno per una ventina di metri. Mi faccio coraggio e stringo forte le mani intorno alle catene, ragiono prima di mettere i piedi sotto l’acqua corrente, il petto sempre contro la parete. Mi sale l’adrenalina, non guardo giù: un passo dopo l’altro, strisciando contro la roccia, arrivo in fondo. Penso che peggio di così non può andare, e che è ora di incontrare l’eremita. Forse era una prova da superare, come per selezionare solo altri folli, che non hanno paura del vuoto.

Tra i rami degli alberi sbuca già una baita con un camino che fuma, circondata da orti e muretti a secco della solita, onnipresente pietra grigia. Dopo due ore di sentiero nel bosco selvaggio, quella baita è una visione idilliaca e gentile, che sembra uscita dalla Terra di Mezzo.

L’ultimo ostacolo, quando ormai manca poco, è un guado di fiume: è fine maggio e le cascate della Val Grande esplodono d’acqua, fragorose, esagerate, e anche quel torrente è probabilmente più carico del solito. C’è una corda appesa, non si capisce bene per cosa – forse per trasportare oggetti da una parte all’altra, ma non certo per lanciarsi sull’altra sponda usandola come liana. Ci buttiamo giù da un piccolo scivolo naturale scavato nella roccia e saltiamo sulle pietre nel punto meno fondo – le pietre sono mobili, scivolose, e i piedi finiscono in acqua. Quando succede così, non c’è da pensare: l’importante è arrivare dall’altra parte.

A Velina Baserga, troviamo una natura domata, assediata da un bosco fitto e poderoso. Ci sediamo sotto un glicine che sta buttando i primi fiori. Dietro un cancello, un uomo armeggia con padelle, contenitori, arnesi vari.

«Buongiorno, siamo in due. Possiamo sederci?»

Sulla rete è appeso un listino prezzi e un menù, stampato bene, su carta plastificata. È solo in tedesco e sembra tradotto bene. Birra, coca cola, vino al bicchiere, trota di fiume a prezzi davvero onesti, per essere così lontani dalla civiltà, per giunta su un sentiero infernale.

«Ma lei parla tedesco?»

«Neeeein», mi dice ridendo Piero, allungando la e in un lungo lamento con una vocetta acuta.

«Ma nein in tedesco si pronuncia /’nain/!», ribatto, per metterlo un po’ alla prova.

«Ma io lo dico alla svizzera, che dicono /’nein/. I tedeschi non mi piacciono. Meglio gli svizzeri. E io lo dico alla svizzera».

Piero non è di molte parole, ma d’altronde da un eremita non mi aspettavo grande loquacità. Va e viene, a tratti risponde a monosillabi, poi scompare in cucina, o nell’orto, mentre noi finiamo il nostro pranzo.

Addossata a una parete c’è una croce di legno, un ritratto di Shiva dalla carnagione bluastra, un tasbih islamico, che si snocciola come un rosario; e ancora un santino della Madonna, candeline varie e, di fianco, su un’architrave, una serie di teschi di animali, grandi e piccoli, con corna e senza, che un po’ mi inquietano. Siamo a due ore a piedi dalla prima strada asfaltata, sul limitare della riserva integrale del Pedum e, ovviamente, non prende il cellulare, come praticamente dovunque in Val Grande.

Velina Baserga, Val Grande

Chiedo a Piero dei teschi sull’architrave. Sono dei suoi gatti defunti, ma anche di qualche caprone inselvatichito a cui ha sparato nel bosco, cioè i pronipoti del bestiame abbandonato dai pastori della Val Grande negli anni ’70, quando era chiaro che non sarebbe arrivata la strada, né l’acqua, né l’elettricità. Branchi di capre girano ancora nei boschi, e chissà se, da qualche parte nel loro DNA, hanno ancora memoria dell’addomesticamento. Su una parete della casa opposta, è esposta una tagliola arrugginita. «Era già lì quando ho comprato l’alpeggio», spiega Piero, eppure gli è costata una multa salatissima da parte dei forestali, ma poi non l’ha tolta. Seguono vari improperi: tra loro non corre buon sangue, ognuno ha interessi diversi. «Devono starmi alla larga, quelli lì», conclude.

Mi presento mentendo, dicendo che sono del paese di mio nonno, in collina. Piero si scioglie. Ho fatto centro: suo papà era proprio dello stesso paese, anche se lui è cresciuto più vicino al lago. Conosce addirittura il negozio dei miei parenti: andava da loro quando erano solo una piccola bottega. Si scusa per prima, se è stato di poche parole: «È un giorno e mezzo che non parlo con nessuno e mi si era impastata la lingua».

Da vent’anni invece è proprietario dell’alpeggio e da poco meno l’unico, fiero residente ufficiale del Parco Val Grande fuori da Cicogna – lo dice la sua carta d’identità. Si è ristrutturato tutto da solo negli anni, ha aperto un bivacco a pagamento, gestito da lui, e uno pubblico più piccolo, che il Parco gli ha imposto di mantenere a sue spese in cambio della concessione sul bivacco privato. Vive di orto, trote pescate nel fiume, caccia al caprone ogni tanto, e due o tre volte all’anno si fa portare quello che gli manca in elicottero.

«Ma quanto costa un elicottero?», chiedo io. Una trentina di euro al minuto. Ma è necessario: pasta, riso, birre, vino non riesce a produrseli da solo. E poi d’estate ci sono i tedeschi, che a quanto pare sono ossessionati dalla Val Grande. Ci sono guide escursionistiche tedesche specializzate, varie guide, articoli, vlog e, ci hanno detto, persino libri di scrittori che si sono ritirati a vivere da soli da qualche parte in un alpeggio, d’inverno, à la Sylvain Tesson sul lago Bajkal.

«Una bella trota del fiume quelli me la pagano anche dieci euro», mi dice compiaciuto. Gli chiedo chi gli ha tradotto il menù e i cartelli in tedesco – mi sembrano scritti bene, per uno che dice che nein, non parla tedesco. «Ah, la mia fidanzata, che sa il tedesco perché è mezza svizzera». Rimango di sasso. «E quando vi vedete?»

«Mah, ogni tanto passa a trovarmi o scendo io. Ma poi non sto molto, perché voglio subito tornare».

Dice che il tempo giusto per una fidanzata è cinque anni, poi bisogna cambiare. Lo aiuta a gestire il sito e la pagina Facebook del bivacco. Piero ha un pannello solare e può permettersi di usare internet satellitare per qualche ora al giorno, ma d’inverno meno, perché c’è meno luce. È strano vederlo fare una telefonata – chiamava perché gli devono portare una gatta selvaggia che gli cacci i topi, che devastano le sue provviste. «Una gatta di città non sopravvivrebbe neanche una notte, nel bosco».

Dopo un po’, gli chiedo cosa lo ha spinto a prendere casa qui e a lasciare la civiltà. La risposta, di nuovo, mi spiazza.

«Eh, perché volevo stare tranquillo». Indica l’alpeggio, il bosco, il panorama. Velina è un posto meraviglioso. Ed è l’unico alpeggio della Val Grande a ricevere abbastanza luce anche d’inverno, perché è strategicamente esposto a sud – non nevica troppo, non fa troppo freddo, si vede uno scorcio di lago blu, placido e liscio come una tavola. Abbastanza per ricordarsi quanto è bello, non abbastanza da avere nostalgia della civiltà. Qui Piero vive alla grande.

La Val Grande a trenta minuti da Cicogna

Ci fa entrare, visitiamo il bivacco, coccoliamo un po’ il suo cagnolone, che si spalma per terra, pigrissimo, sulle pietre calde. Il bivacco è spartano ma molto carino: si dorme in un soppalco, ma la cucina è perfettamente attrezzata. Chiacchieriamo a ruota libera, dei suoi amici del parco, degli jurodivye, delle loro avventure. Per uno di loro si commuove.

«Era un mio amico». Massimo e Andrea ci avevano raccontato di lui. È mancato tragicamente qualche anno fa, avvelenato. Aveva mangiato dei cristalli forse di stricnina, usata fino agli anni ’70 per uccidere volpi e altri animali selvatici. È una storia terribile, che vi risparmio. Dalle parole di chi ce l’ha raccontata si capisce quanto è grande è stata la perdita di una persona come lui. Piero cambia discorso in fretta, ha voglia di stare allegro. Ci racconta di quella volta che erano insieme a pescare al torrente – il maggiociondolo era in fiore, e aveva visto il suo amico riempirsi la bocca di quei fiori tossici, masticandoli sonoramente, a sfregio di tutto e tutti. «Ma sei scemo, cosa fai, sono tossici!», gli aveva urlato. Quella volta si era risolta solo con una brutta diarrea, che Piero aveva dovuto pulire il mattino dopo. Scoppia in una grassa risata.

Lo guardo e penso che potrebbe essere un operaio di un vagone di terza classe della Transiberiana, un contadino della Carelia o degli altopiani armeni, un monaco georgiano d’alta montagna, e invece mi fissa coi suoi occhi azzurro ghiaccio vivissimi, i capelli lunghi e bianchi, parlandomi in italiano pulito, con una lieve inflessione dialettale. Per una volta l’abisso culturale non è dato dalla lingua che parliamo, ma solo dalla vita che facciamo: lui nella selva degli animali, nelle montagne selvagge, io, insofferente, nel cemento della città. Il suo viso è talmente scavato che potrebbe avere cent’anni, ma ne ha solo sessanta.

Starei a parlare con lui per ore, come se potesse, parola dopo parola, ricongiungermi con quel mondo e con le mie radici, ma è ora di andare – c’è da guadare un fiume al ritorno, risalire una gola ferrata e attraversare quella maledetta cascata, con l’acqua che scroscia sopra gli scarponi, perché il ponte che riallaccia Velina alla strada asfaltata per Cicogna ha le assi marce. Se si cade, si vola per una cinquantina di metri, giù nella gola, e il sentiero è ancora chiuso, anche se qualche jurodivyj so che lo fa lo stesso. Anche Piero lo fa, perché sa dove mettere i piedi, ma per noi, senza neanche una corda al seguito, è fuori discussione.

Risaliamo il versante rapidissimi, la mente affollata di pensieri – rivedere il (poco) asfalto di Cicogna, il maledetto campanile che suona tutte le mezz’ore due volte, le case civili, intonacate, è uno shock. E anche noi, un po’, abbiamo voglia di tornare dentro, come dicono lì. Perché della Val Grande c’è un dentro e un fuori, ben distinti, come diverse dimensioni. Sta a noi capire dove vogliamo stare.

Informazioni pratiche per andare per sentieri in Val Grande

La Val Grande è un posto pericoloso, assolutamente non adatto a escursionisti inesperti. Il cellulare non prende praticamente mai da nessuna parte, i sentieri sono spesso difficili e in certi casi poco battuti, sono frequenti frane, persone che si perdono e addirittura muoiono. L’ultima è, purtroppo, di fine giugno, ritrovata dopo un paio di giorni di ricerche. Non è assolutamente un posto dove andare da soli.

Un’ottima idea è farsi portare da una guida ufficiale del Parco o da una guida ambientale o escursionistica, su sentieri sicuri.

In autunno 2021 ripeteremo un altro weekend in Val Grande assieme a Davide, guida ambientale del collettivo Vette e Baite. La prima edizione, del 26-27 giugno 2021, è andata sold out ed è stata emozionantissima. Puoi iscriverti alla mia newsletter eventi per sapere quando sarà e per iscriverti prima che i posti vadano esauriti.

Consulta il sito ufficiale: a volte i sentieri franano e vengono chiusi, la valle è estremamente piovosa. Chiama il Parco per farti dare consigli su che sentieri fare, adatti alle tue capacità.

I punti di accesso sono diversi: Cicogna è l’unico centro abitato dentro il Parco, ma è raggiunta da una strada strettissima, tortuosa e impegnativa. È difficile percorrerla con una macchina troppo larga, i punti di scambio nei due sensi sono limitati e gli ultimi chilometri non sono protetti. Escludi questa opzione se non hai una guida sicura. Altri punti d’accesso ma con sentieri difficili sono da nord (Trontano, Malesco), altrimenti si accede anche da sud-est: Miazzina, Caprezzo, Pian Cavallo etc.

Infine, se visiterai la Val Grande, pensa di sostenere chi ci vive e che, ogni giorno, tiene l’uomo in terre difficili, ma che sono abitate da millenni: è anche grazie a loro se oggi possiamo percorrere sentieri in un’area così selvaggia. Io ti consiglio con tutto il cuore di dormire all’Ostello Val Grande, che è un posto speciale, dove avvengono incontri magici, e di andare a mangiare qualcosa all’agriturismo Corte Merina, facendo due chiacchiere con Rolando.

Cosa leggere e guardare sulla Val Grande

Per approfondire, consiglio il Meridiani Montagne n.85 sulla Val Grande.

Per i sentieri, le mappe più complete e assolutamente indispensabili per girare nel parco sono quelle del CAI-Geo4Map. La Val Grande si trova grossomodo nelle carte n. 13 e 14.

Su YouTube, c’è un documentario sul rastrellamento nazista della Val Grande, molto interessante. Sono 10 episodi fatti molto bene e con delle belle interviste, li trovate qui.

Un buon video su una spettacolare traversata della Val Grande è di un gruppo di tedeschi, che l’ha fatto dormendo nei bivacchi del parco.

Per oggi è tutto 🙂 sono molto felice di essere tornata a scrivere quassù, dopo così tanti mesi di pausa.

Alla prossima!
Eleonora

Prodotti consigliati in questo articolo

Nelle foreste siberiane: febbraio- luglio 2010, di Sylvain Tesson: su Amazon, Libraccio, Feltrinelli e Mondadori Store.
Meridiani Montagne, Val Grande (n. 85): su Amazon, Libraccio, Feltrinelli, Mondadori Store
Val Grande 1:25000: nel cuore del parco nazionale, CAI: su Amazon, Libraccio, Feltrinelli e Mondadori Store.
Ti consiglio anche di dare un’occhiata alla mia attrezzatura da trekking: qui

Questo post può contenere link affiliati o sponsorizzati.
Seguite Pain de Route su Instagram o iscrivetevi alla newsletter.

Lascia il primo commento