Questo post-diario parla del meraviglioso quartiere ebraico di Samarcanda, di questa leggendaria città e del nostro viaggio in Uzbekistan, tra le più anomale e interessanti repubbliche dell’ex URSS.
Tutti abbiamo cercato la nostra Samarcanda. Da bambina pensavo fosse da qualche parte in Africa, ma poco importava: era Samarcanda, non poi così lontana e comunque raggiungibile a cavallo. Oggi una grande città di uno stato che fino alla morte del suo dittatore, Islom Karimov, nel 2016, è stato estremamente chiuso al resto del mondo e repressivo al suo interno. Nell’Uzbekistan di Karimov viaggiare era davvero complicato – i viaggiatori venivano visti tanto con sospetto dalle autorità quanto con affetto dalla popolazione locale.
L’Uzbekistan del 2024 è un paese ruggente, che avanza a grandi falcate, a volte facendo passi più lunghi della gamba, ma in profonda trasformazione. Chi ha vissuto la propria infanzia e giovinezza in Unione Sovietica, fino al 1991, stenta a riconoscere molte delle città del suo paese, la lingua viene persino scritta con un alfabeto diverso da quello che avevano imparato a scuola.
Ma insomma, questo era un post sul leggendario quartiere ebraico di Samarcanda, oggi circondato da alti muri, perché non c’era spazio per lui nella Samarcanda-cartolina di Islom Karimov.
Di Asia Centrale negli anni ho scritto moltissimo e con Kukushka Tours ci organizziamo dei tour molto particolari.
Il post è stato scritto originariamente nel 2017, dopo il primo viaggio in un Uzbekistan che oggi forse non esiste più: molte cose sono cambiate, ma sono certa che capirete.
Buona lettura.
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Visitare il quartiere ebraico di Samarcanda
1. Samarcanda, la città muta e i muri
Il Registan. Per davvero: è Samarcanda. Sa-mar-can-da, un nome che si srotola. Non puoi contenere la gioia. A dire il vero, dopo lo stordimento iniziale, Samarcanda suona strana. Non te la immaginavi esattamente così. Suona strana perché non suona: silenzio inquieto al mattino, al pomeriggio, alla sera. Poco traffico. Poca gente in giro.
Samarcanda è schiacciata da una cappa di umido e caldo, nuvoloni piatti che lasciano trapelare il sole. Uomini e donne accovacciati che curano i giardini maniacalmente. Ogurtsy (cetrioli, come i locali chiamano i poliziotti) ad ogni angolo di strada, col loro cappellino verde bordato di rosso, gentili, sì, ma mai fidarsi. Donne che spazzano le strade, non una cartaccia per terra. Non un bar un po’ animato, un ristorante un po’ spontaneo. Non una scuola. Non un negozietto di frutta, non un chiosco di shaurma, un supermercato, un negozio di vestiti. Non un mercato: intendo quelli veri centroasiatici, bui, sporchi, spontanei, incasinatissimi. Insomma: ci fosse, oltre a quella bellezza smodata e abbagliante, qualcosa. Qualsiasi cosa d’altro. Samarcanda è strade vuote, platani immensi, piazze verde sfavillante anche con trentadue gradi nell’aria. Fontane che zampillano per non si sa chi.
I minareti ti ammutoliscono. Le madrase, le moschee, i portali immensi, le necropoli, le maioliche blu: sì, è vero. È il motivo per cui siamo venuti qui, alla fine. No?
Non hai il coraggio di risponderti che ti basta così, perché è chiaro che manca qualcosa. Qualcosa di importante.
In Uzbekistan è molto facile farsi salire un po’ di complottismo: il governo ha manie di persecuzione al limite del patologico e in frontiera, nella Valle di Fergana, mi hanno persino chiesto di raccontare la trama dell’unico libro che portavo con me. Potenzialmente pericolosissimo.
Era difficile non avere la sensazione che le autorità non volessero farti vedere l’Uzbekistan reale. Così hanno costruito muri intorno ai mausolei mozzafiato, alle madrase, ai giardini, alle necropoli. Perché la vita vera della gente forse non ti piacerebbe. Perché forse urterebbe la tua idea fumosa e vuota su quello stato che ancora non sai bene pronunciare, che non hai ancora capito bene dove si trovi sulla carta, e di cui non conoscevi nemmeno l’esistenza fino a prima di acquistare il pacchetto viaggio all inclusive dove in fondo non sai neanche bene dove stai andando. Ed è esattamente così che deve essere.
E, alla fine, è meglio per tutti che sia così. Tu tornerai stupito dell’ordine e della pulizia dell’Uzbekistan, decantando le maioliche ripittate a nuovo qualche anno fa, ma che non sai distinguere da quelle originali del Cinquecento: che importa?
Loro, gli sporchi e i poveri, non li incontrerai manco per sbaglio. Così non si correrà il rischio che conoscano il di fuori e poi vogliano scappare da quell’Assurdistan dove le banconote valgono meno del costo di stampa, gli stipendi sono una miseria e la libertà di pensiero non è una privazione, ma semplicemente non è mai esistita.
Un giorno io e MamaAfrika abbiamo trovato un varco in uno di quei muri altissimi, tirati su di fresco. Era il quartiere ebraico di Samarcanda. Così siamo entrate.
Leggi anche: Come organizzare un viaggio in Asia Centrale
2. La Città Reale: il quartiere ebraico di Samarcanda
Dietro i muri di Bibi-Khanym e Shah-i-Zinda c’è lo storico quartiere ebraico di Samarcanda. Trovare la sinagoga da soli è quasi impossibile, perché il quartiere ebraico di Samarcanda è come una Medina di strade identiche, storte, curve, chiuse e non mappate. Non ci sono cartelli o lampioni, ma in compenso le fogne sono a cielo aperto: dei canali verdi di acqua putrida e rifiuti che tagliano i vicoli a metà, stando attenta a non caderci dentro. Le piazzette dove i bambini giocano a calcio non sono asfaltate, e ad ogni rigore o parata è una nuvola di polvere in cui decine di corpicini scorrazzano, si azzuffano, saltano, ridono.
Una signora sulla porta ti sorride. Puzzi di turista lontano un chilometro. Cercate la Sinagoga?, vi sorride. Da qui, sempre a destra. E da lì in avanti, non sarai più solo: orde di bambini ti seguiranno urlanti. Vy govorite po-russkij? Vogliono toccarti, vogliono giocare e chiacchierare un po’ con te. Ti salutano timidamente e poi scappano. Sei strana. Oh, come sei strana!
A due passi dal leggendario Registan di Samarcanda, dietro un muro, un turbine indomabile di bambini salta, corre, si lancia contro i getti d’acqua, gioca ma soprattutto ti si lancia addosso a braccia aperte.
Non sanno chi sei o da dove vieni, ma una cosa è sicura: non sei di Samarcanda. Come fanno a saperlo? Semplice: non parli tagico.
– Da cosa li riconoscete i tagichi?, avevo chiesto a Babi.
– Dalle sopracciglia. Quando uno è tagico si vede subito. Lo sguardo, gli occhi, ma soprattutto le sopracciglia. A Samarcanda sono la maggioranza, ma c’è un po’ di tutto in realtà.
Babi mi ha stupita. Dico davvero. È sempre così nitida, spiazzante. Le sopracciglia… Il vero gioiello di Samarcanda, però, non sta nelle maioliche azzurro cielo. Ci vuole poco a capirlo.
Una bimba con un pallone da basket in mano mi viene incontro.
– Privet, hello, welcome! Otkuda vy (da dove venite)?
– Siamo italiane.
– Pravda!? Ma anche la tua amica è italiana?
– Sì, ma suo papà è tunisino.
– Ooooooooh. Che strani capelli che ha. Perché sono mezzi neri e mezzi rossi? E perché non parla russo?
– Perché non l’ha ancora studiato. Ma capisce tutto quello che dici, bimba, sai? 😉
– Oooh. E che lingue parla allora?
– Molte. Inglese, arabo, francese. Italiano e spagnolo. E ne capisce altre ancora.
– La mia famiglia è russa ma di Samarcanda. Quindi parlo anche uzbeco, tagico, russo e capisco l’afgano, il persiano, il kirghiso e il kazako. E a scuola studio un po’ di inglese.
– (Apperò, la bimba…)
E poi ci sono io, che sono stata scambiata per kirghisa, uzbeca o kazaka a seconda del paese.
Ma noi eravamo entrate lì dentro per cercare una sinagoga. L’unica sinagoga rimasta nel quartiere ebraico di Samarcanda. Per viaggiare servono degli obiettivi, o almeno degli alibi, anche se poi quello che speriamo di incontrare è sempre tutt’altro: per esempio una banda di bambini.
Ci siamo arrivate con la scorta multietnica. Ci ha accolte un uomo smilzo, lento, stanco. Uno dei pochi ebrei ancora presenti in città. Kippah in testa, ci ha mostrato la piccola sinagoga, che ha due stanze separate: una per i sefarditi e una per gli ashkenaziti. Ci ha raccontato le storie dei precedenti custodi, ci ha mostrato i libri antichi, il piccolissimo giardino da cui ho strappato una bacca acerba in ricordo di quel luogo di pace, a un passo dallo scomparire. Ce l’ho ancora in tasca, ormai secca, e ogni tanto ci penso.
Da lì, altre scorte di gruppi di ragazzi, fino all’uscita. Che, incredibilmente, è ancora proprio lì, un anonimo buco in un muro a un passo da quel posto-della-sabbia, il Registan, per cui tutti sognano incantati i profumi di Samarcanda. Io e Mama siamo un po’ stordite da quel vortice di vita.
Non so voi, ma per me questa è la cosa più bella del viaggiare. Vedere la gente, toccarla, abbracciarla. Lasciarsi toccare, avvicinare, baciare. Vedere che esistono occhi a mandorla e azzurri come le cupole di Shah-i-Zinda. Vedere che questi occhi giocano insieme, con la stessa palla, parlando tutte le lingue possibili.
Per oggi è tutto, a presto!
Alla prossima!
Ele
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