Sono ormai anni che cerco sempre di non viaggiare in maniera standard. Non per la mia percezione di standard, perlomeno. Nonostante l’epicità intrinseca di un viaggio come la Transiberiana, c’era qualcosa dentro di me che mi diceva che sì, potevo andare oltre. Che l’avevo già fatto altre volte, che quel senso di colpa proprio non aveva senso: mi bastava allungare la mano e prendere quello che volevo. Proprio come quando, in un pomeriggio già buio dell’autunno di un anno e mezzo prima, dalla scala appoggiata allo scaffale della biblioteca dove lavoravo allungai la mano e presi L’isola di Sakhalin, un libro di Anton Pavlovich Chekhov.
Con me nessun viaggio nasce per caso. Anche la più assurda delle coincidenze ha un richiamo, un nodo di origine, un seme che era già dentro di me e che poi germoglia. Il seme di Sakhalin era la noia ingannata scrivendo di nascosto in quella biblioteca, la polvere respirata svuotando scaffali, i panorami che vedevo leggendo centinaia di titoli di libri ogni giorno.
Il 18 giugno di due anni dopo, toccavo l’Isola di Sakhalin in tempo per il tramonto, e mi scendeva una lacrima al sentire, per la prima volta dopo aver attraversato tutta la Russia in treno, l’odore dell’Oceano.
Nota: questo articolo è un estratto di Isola, capitolo incluso nel mio libro Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici.
L’isola di Sakhalin. Viaggio ai confini della Terra
Scendo dall’aereo dopo aver seguito l’atterraggio con la stessa emozione di un pilota al primo volo. L’isola è un animale vivo, morbidamente ricoperto di un manto verde fitto e impenetrabile. Respiro a pieni polmoni e, per la prima volta dopo quasi 9.000km via terra da Mosca, sento l’odore inconfondibile e profondo del mare. La salsedine in fondo alla gola, nei capelli, sui polpastrelli che sfiorano il palmo delle mani nei pugni chiusi: la sensazione di essere nel luogo giusto, dopo tutta quella strada, è talmente forte che non trattengo la commozione. 9.000km di pensieri densi, cadenzati al ritmo delle rotaie. Sakhalin l’avevo immaginata, cercata, progettata, seguita, eppure non avevo pensato al come sarebbe stato rivedere la grande distesa d’acqua salata, quel suo odore inconfondibile che nessun lago avrà mai. Mi ha sorpresa, mi ha trascinata di peso e mi ha detto “eccoti a casa”. Voglio pensare che fosse stata un’emozione ancora più intensa di così per il buon Anton Pavlovich, che mise piede sull’isola nel 1895, dopo aver attraversato la vastitià delle Russie in battello, treno, carrozza e infine nave.
La Transiberiana finisce a Vladivostok, ma l’ultimo vero lembo di terra abitato è l’oblast’ di Sakhalin, una regione insulare che include la lunghissima e omonima isola e l’arcipelago delle Curili, in parte ancora conteso tra Russia e Giappone.
L’unica cosa che sapevo veramente di Sakhalin, oltre alle vivide descrizioni dei lavori forzati a Aleksandrovsk-Sakhalinsk, al numero di figli legittimi e illegittimi di Due, e all’aspetto peloso e indigeno degli Ainu e dei Nivkhi, era che Sakhalin nel 2019 è ancora un buco nero del turismo occidentale.
Introvabile sui media in inglese, presente solo per rade questioni petrolifere su quelli russi, le uniche informazioni che avevo erano i forse, i prova a sentire loro e i dovrebbe di WikiTravel, oltre ai bizzarri e in realtà piuttosto inutili blog post di due giapponesi e un indiano che c’erano stati. Oltre alla colonia penale descritta da Chekhov, agli stabilimenti petroliferi e alle molte promesse fatte di costruire prima un tunnel (Stalin) e poi un ponte (Putin) con la terraferma, non sapevo molto. Dall’Italia, era evidente che non potessi pianificare la mia settimana a Sakhalin più di tanto. Così feci quello che sapevo fare meglio di qualunque altra cosa al mondo: procrastinare il problema.
Tagliai le foreste, le steppe siberiane, i primi monti altaici; costeggiai il Baikal, le terre rosse buriate, le piane paludose di Birobidzhan in uno stato euforico e con la mente inebetita dal mantra del vse budet khoroshò. Finché non rimasi l’unica passeggera a bordo di uno scassatissimo autobus verde e giallo diretto verso Habarovsk nord. L’autista aprì le porte con la solita mancanza di grazia e la bigliettaia mi annunciò, didascalica, vot aeroport.
Fu lì che l’ansia si rimanifestò in tutto il suo più fresco vigore.
A quelle longitudini l’Unione Sovietica non se ne è andata mai. Il terminal dei voli internazionali della grossa città portuale di Habarovsk, a tratti elegante, a tratti inquinata come la Bakù degli anni d’oro del petrolio, era nuovo di pacca. Manager cinesi, biznesmeny coreani, qualche turista giapponese che doveva aver confuso la città sull’Amur con la dominatrice dell’Oriente, Vladivostok.
Il terminal per voli interni crollava a pezzi. Quattro panche buttate lì con i seggiolini in tela squarciati, pannelli metallici e vetro design démodé che sembravano staccarsi se li avessi fissati troppo intensamente. Non pensavo avrei mai potuto provare di nuovo quella sensazione di disagio sporco, inefficiente e anni ’70 che provai alla Motorizzazione di Milano – per essere precisi, a Molino Dorino, la finis terrae meneghina – il giorno dell’esame teorico per la mia patente. I computer già vecchi ma freschi di acquisto praticamente andavano a pedali, e ad accoglierti nel gelo del dicembre padano c’era un’enorme sala vuota piena di gente infreddolita schiacciata contro le pareti, le stesse panche con seggiolini schiodati, e ovviamente i riscaldamenti rotti.
Ora, io a Habarovsk c’ero stata a metà giugno, ma il sentore era identico, solo con l’umido marcio che risaliva dall’Amur.
Inutile dire che ero la sola straniera a bordo di quel minuscolo velivolo ad elica di nome Avrora, come la nave ammiraglia che diede il via ai bolscevichi che assaltavano il Palazzo d’Inverno, dalla parte diametralmente opposta dell’impero.
Un giorno prima avevo poi scoperto che il mio brillante piano di percorrere l’Isola longitudinalmente, a bordo delle vecchie ferrovie con lo scartamento giapponese, doveva naufragare per cause di forza maggiore: per tutto il mese di giugno 2019, la linea ferroviaria passeggeri era in remont e sarebbe stata sostituita da deliranti autobus con cambi nel cuore della notte in mezzo al nulla della tundra sakhalinese.
Così mandai un paio di richieste di ospitalità col vecchio caro CouchSurfing, a Masha, serissima interprete giapponese-russo con gli occhi a mandorla, e Diana, quella col profilo più freak e il cognome ucraino. In realtà nessuna delle due poteva ospitarmi, ma mi mandarono prontamente il numero delle loro rispettive migliori amiche, che invece mi aspettavano a braccia aperte. E ho già detto che su questo blog non si parla di coincidenze, ma di semplici cause-conseguenze.
Nadezhda portava il nome della fregata di 450 tonnellate con cui l’ammiraglio Krusenshtern salpò da Londra nel 1803, per poi ripartire ufficialmente dall’isola di Kronshtadt alla volta del Giappone. Fu con quel viaggio che arrivò fino in Kamchatka e la cartografò, insieme a Sakhalin (ancora creduta una penisola) e alle isole Curili.
Sull’autobus mi concentro sulla strabiliante antipatia della bigliettaia e sui suoi tratti somatici indiscutibilmente coreani, così perdo la mia fermata. Nadezhda mi viene incontro sulla Prospekt Mira, che si chiama come quella su cui abitavo a Mosca, ma dall’altra parte del globo. Caschetto nero, monopattino elettrico, zainetto ergonomico con l’imbottitura per il pc. Andiamo a casa a piedi su marciapiedi rifilati di fresco, aiuole curate come il centro di Zurigo, condomini sovietici ristrutturati e ridipinti a colori sgargianti. Nel grattacielo dove si è comprata un appartamento tutto suo ci fermiamo a prendere dei bliny alla mela da scaldare in padella per cena. Le cassiere sono tutte… asiatiche.
Uzbeche, mi dice Nadya. Scoppio di gioia all’idea di essere a Sakhalin, ma la capitale dell’isola si presenta radicalmente diversa da come me la immaginavo. Una distopia cupa, ventosa e tropicale contemporaneamente, che mi ricorda l’Islanda, le Azzorre, Tel Aviv coi suoi maledetti monopattini elettrici e il Ticino coi suoi marciapiedi perfettini. Mancavano le cassiere uzbeche, in effetti, che mi riportano nella Mosca più spietata delle periferie ammassate di centroasiatici, dove le donne si tingono i capelli di biondo e i nonni girano con lo zuccotto a -20°. È la Russia che fattura.
Nadya parla perfettamente il giapponese, l’ha studiato all’università con Masha e ha fatto una specie di Erasmus a Sapporo, ma ora lavora come export manager in una grossa azienda del petrolio.
-Sai, se lavori nel petrolio… ti pagano bene.
Il suo è l’appartamento più bello e nuovo che abbia mai visto in Russia. E giuro che mai e poi mai mi sarei aspettata che fosse proprio a Sakhalin. Ma le cassiere uzbeche e il prezzo dei bliny già pronti avrebbero dovuto dirmelo: a Yuzhno-Sakhalinsk arrivano i soldi. Ed è per questo che, a Sakhalin, se non vuoi fare la fame alla fine finisci col lavorare nel petrolio.
Chiacchieriamo per tutta la sera con la foga inarrestabile di quando trovi una tua sosia di spirito, nata e cresciuta dall’altra parte del mondo ma, sotto sotto, come te. Nadya è l’unica che in questo viaggio non mi chiede perché sono venuta proprio a Sakhalin. Non me lo chiede perché ha viaggiato e sa cosa cerco. Glielo dico candidamente e mi scalda il cuore vederla ridere di gusto, con gioia: non riuscivo a credere che la gente qui ci vivesse veramente.
Ma hey, here we are! I pazzi sakhalinesi che, indovinate un po’ vivono abbastanza come tutti gli altri, solo che in un posto assurdo. Mi bastano pochi minuti e pochi sorsi di tè cinese per capire che il mondo che gira intorno a Sakhalin non è affatto Mosca, com’era fino a Habarovsk, ma l’Asia. Il Giappone soprattutto, ma anche la Corea, Hong Kong, la Cina, Taiwan, l’Indonesia. Semplicemente perché sono più vicini, più interessanti, più ricchi di Mosca e quindi più belli. Le radici di Nadya però sono tutte europee e si addensano proprio lì dove volevo scavare.
La sua bisonna materna si era laureata in medicina, a Mosca, nel 1940. Era pronta a tornare dalla sua famiglia a Voronezh quando le dissero: dovrai prendere servizio a Sakhalin. Quella ragazza poco più che ventenne a stento sapeva dov’era Sakhalin. Ma il compagno Stalin aveva detto che servivano medici, a Sakhalin, e non si poteva rifiutare. Così fece le valigie per quello che non sapeva sarebbe diventato un “per sempre”. Arrivò sull’isola e iniziò a lavorare in ospedale, finché non conobbe il bisnonno di Nadya: il resto è storia.
Mi sveglio con la luce di un sole brillante che filtra tra le tende. Nadya è pronta per andare in ufficio, si mette il caschetto sui capelli biondi e mi lascia alle mie passeggiate in città. A stasera!
Mentre cammino sui marciapiedi intonsi mi sfrecciano accanto grossi suv col volante a destra, d’ingegneria tutta giapponese. Ma la sensazione di trovarsi in una moderna cittadina Svizzera non se ne va. Mentre passeggio tra gli stagni, le curatissime aiuole di fiori e le foreste urbane del Parco della Cultura e del Riposo intitolato a Gagarin, parlando al telefono con gli amici che in Italia stavano andando a nanna, mi sfreccia intorno una processione di joggers con air pods, fascia anti sudore e vestiti fucsia, poi è il turno delle classi d’asilo con la mantellina giallo fluo in gita al Museo Regionale di Yuzhno-Sakhalinsk, l’unico edificio sopravvissuto alla reconquista sovietica di Karafuto, la Sakhalin a sud del 50° parallelo, annessa al Giappone dal 1905 al 1945. La maestra dell’asilo lo scandisce alla russa, con chiarezza: Ka-ra-fu-ta.
Passo una mezza giornata rapita dalle cartine giapponesi di Toyohara, dai riti funerari degli Ainu, che la custode Tatyana mi racconta con passione indicandomi le minuscole casette in cui facevano alloggiare l’anima del defunto; osservo i costumi fatti di pelle di pesce dei Nivkhi, popolo autoctono dalla lingua isolata che ancora vive nel Nord dell’isola e infine passeggio tra stagni da sogni d’Oriente, cippi giapponesi, cimeli bellici della Grande Guerra Patriottica – che è scritta con tre maiuscole anche a 8 fusi orari da Mosca – e due grosse statue di leoni ruggenti a guardia dell’ingresso. Visito anche il parco popolato di statue dei personaggi dei libri di Chekhov e poi schizzo verso l’avtovokzal, che invece è kitsch e squallida anche in una città così moderna.
Fine parte prima di una storia che è molto, molto più di così.
Nota: questo articolo è un estratto di Isola, capitolo incluso nel mio libro Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici.
A presto, su Instagram come sempre.
Ele
Libri consigliati in questo articolo
L’isola di Sakhalin, di A.P. Chekhov: su Amazon, Libraccio, Feltrinelli e Mondadori Store.
Il mio libro: Piccolo alfabeto per viaggiatori selvatici.
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10 commenti
Dario
Solo oggi 20 luglio 2024 ho letto il tuo articolo.
Ho parcheggiato la motocicletta a Irkutsk (che ho raggiunto dopo un viaggio di oltre 15.000 km dall’Italia attraverso i Balcani, Turchia, Georgia, Russia, Kazakistan, Uzbekistan, Tajikistan, Pamir Highway, Kirgikistan, Monti Altaj, Novosibirsk, Tomsk, Krasnoyarsk, e infine Irkutsk.
In settembre riprendo il viaggio e vorrei raggiungere Sakalin in traghetto Vanino – Kholmsk.
Secondo te di cosa avrò bisogno?
Eleonora
Ciao Dario!
Direi di niente che non hai già, sono le zone più selvagge della Siberia e del Dal’nyj Vostok e probabilmente ci saranno varie centinaia di km senza villaggi o centri abitati, quindi tutto quello che ti serve per essere autosufficiente.
A presto e buon viaggio!
Eleonora
Wilma Morri
Appassionata di Checov vi ringrazio per le informazioni descritte dall’autore sull’isola di Stachalin. Ho visto stasera il film Anton Checov. È stato come sea vessi navigato attraverso un mondo sconosciuto e scoperto un nuovo mondo.
Grazie
Laura
Ciao , non è possibile raggiungere l’isola dal Giappone ? Con aereo o con nave nel caso ? Grazie
Eleonora
Molto difficile Laura, c’era un traghetto da Korsakov all’isola di Hokkaido una volta a settimana prima del covid, ma ora chissà! In aereo più semplice senz’altro
Antonio
Scusa, mi sono accorto di non avere lasciato l’e-mail
Antonio
Antonio
Ciao Eleonora,
ho letto per caso la prima parte di questa tua avventura su Sakhalin, mentre ero alla ricerca di notizie turistiche o di viaggi (in verità quasi inesistenti!) sul web riguardo l’isola. A parte che è molto ben scritto e ogni riga fa appassionare ed incuriosire il lettore mettendogli fretta di passare al capoverso successivo! Mi sa che devo compare il libro per vedere come finisce la tua avventura…
Io cercavo Sakhalin perché ho scoperto che esiste una gara di nuoto (13/08/22) del circuito Oceanman nella laguna costiera (Ozero Tynaiča) vicino a Okhotskoe. Ora, sinceramente non so se avrò mai il coraggio di andare da solo così lontano, ma anche per curiostà volevo chiederti qualche info. Ritieni che sia possibile girare l’isola in modo autonomo, specie conoscendo solo 4 parole di russo, dato che mi immagino che le lingue europee siano quasi sconosciute, o sbaglio? E sarebbe meglio avere un’auto o usare i fantastici mezzi pubblici da te descritti? Oppure non è consentito girare senza una guida agli stranieri? E un’ultima cosa, dato che hai toccato con mano. Gli organizzatori parlano di temperature esterne, per il periodo, di ca. 22°C, mentre l’acqua sui 19. Ti risulta o è un’affermazione un po’ troppo ottimisitca? 😉
Grazie! E complimenti ancora per il blog e queste storie interessanti ed utilissime per gli altri viaggiatori!
Antonio
Eleonora
Ciao Antonio!
Che sorpresa ricevere il tuo commento! Rispondo in ordine:
– Girare l’isola in modo autonomo sni, ci sono pochi mezzi pubblici e il 90% delle persone non sa l’inglese. Ci sono pochissime informazioni su internet in inglese per cui credo ti verrebbe difficile anche documentarti a dovere. È poi un’isola molto molto lunga, quasi come tutta l’Italia! Secondo me ti converrebbe prendere una guida sul posto, almeno per qualche giorno, per ambientarti.
– Se vuoi girare da solo, assolutamente buona auto, magari 4×4, perché fuori dalle strade principali è tutto sterrato con buche assurde, i mezzi pubblici coprono davvero molto poco. C’è il treno nord/sud in alternativa
– Certo, gli stranieri possono girare liberamente 🙂
– 22° e 19° ci possono stare, ma tutto dipende drasticamente dal meteo, se piove non è inverosimile che le temperature scendano a 10/15° anche ad agosto, mentre se c’è il sole magari si arriva anche a 25°. Io sono stata fortunata ma Sakhalin non è nota come località balneare… Dicono che il mese migliore come meteo sia settembre, in ogni caso.
A presto e grazie, fammi sapere cosa ne pensi del libro!
Eleonora
Gabriel
Ciao Ele.
Sono in viaggio, alla ricerca di qualcosa, forse. Ora sono a Ulan Ude, impossibilitato a varcare il confine mongolo per disposizioni governative anti coronavirus. Ho letto il tuo bellissimo mini reportage sull’isola di Sachalin. l più bello che abbia mai letto, in verità. Attorno al 25 marzo vorrei andarci anch’io, partendo da vladivostok, ma evitando l’aereo. Sapresti aiutarmi?
Cercami su Facebook per favore, zingaro di macondo.
Eleonora
Ciao Gabriel, senza aerei è molto dura e a marzo ho paura ci sia ancora ghiaccio nello stretto dei Tatari. Da Vladivostok può essere ci sia una nave per Korsakov, ma il traghetto più affidabile è quello che parte da Vanino e arriva a Kholmsk, ci mette circa 16h, ma Vanino è a casa del diavolo, 24h di treno da Habarovsk, da Vladivostok direi 36h circa, e non è nemmeno detto che parta. In sostanza, vai lì e te la giochi a carte. Prova a chiamare (dovrebbe esserci una specie di sito dei traghetti online, fai qualche ricerca in russo ovviamente) e vedi se riesci a prenotare un biglietto online 2-3gg prima di partire. Credo che sia il massimo che puoi fare. A Marzo comunque fa ancora freddissimo a Sakhalin e troverai l’inizio del disgelo, la stagione più terribile in Russia (tutto fangoso e triste), anche nel sud, io aspetterei maggio o giugno se possibile.
E grazie per questi splendidi complimenti.
A presto,
Ele