Nei Balcani tutto è stra-ordinario. Anche gli host di Couchsurfing. Piccola storia delirante di quando io e Sara siamo state ospitate a Belgrado da Sasha, un ex militare jugoslavo, pope ortodosso mancato e amatore seriale con tre cani immensi ed esagitati, di cui uno di nome Putin.
Per Pain de Route solo viaggi tranquilli: quest’estate #tutti a Cattolica (cit.).
Buona lettura!
[disegno di Sara, su noi tre painderoutiani]
Sasha, Belgrado e quei tre cani
Arrivavo da Budapest. Anzi, in realtà arrivavo dall’Ucraina. Agosto torrido. Ero, in qualche modo, riuscita a salire su quel treno scapestrato che è il Budapest-Belgrado: 8 ore a passo d’uomo per pianure pannoniche e campi di girasoli della Vojvodina, ritardi colossali, treni che si spezzano e si riattaccano a caso, controllori ungheresi che non sanno dov’è il treno ma che ti dicono di essere fiduciosa. E poi quel biglietto-fascicolo incomprensibile compilato a mano da una vecchietta che parla solo ungherese e, a tratti, tradotto in tedesco oppure in francese (?). Cose da impero austrungarico. Insomma, già essere sul treno era un buon risultato di cui non mi lamentavo affatto.
A Belgrado c’era Sara/MamaAfrika ad aspettarmi. O almeno ci speravo, perché non avevo sue notizie da qualche giorno – nessun WiFi all’orizzonte, zero credito, storie di cellulari persi e ritrovati. Il viaggio non passava mai, mi ero dimenticata di comprare del cibo e non sapevo bene dove sarei stata a dormire a Belgrado: avevo trovato una CouchSurfer, tale Dragana, che non mi convinceva granché.
Su quel treno assurdo ho anche superato il triste muro di filo spinato anti-profughi. L’hanno aperto per lasciarci passare, come un qualsiasi cancello di una staccionata lunga centinaia di km. Un semplice passaporto italiano ti apre tutte le porte, come per magia, e nessuno si scompone. Mi mettono il timbro di ingresso via treno: Subotica. Pensieri un po’ neri.
A Belgrado corro giù dal treno. E’ una notte calda e umida, come mi ricordavo le notti belgradesi. Vedo Sara in fondo alla banchina: una gioia infinita. Sta bene, arrivava dalla Danimarca via Budapest, e aveva un posto dove dormire. Tale Sasha, un pazzo, ma un pazzo buono. C’era un letto grande, avrei potuto venire anche io. Allora niente: via, a capire chi diavolo era ‘sto Sasha.
Corriamo raccontandoci l’impossibile, mangiando burek e sbriciolandolo per strada, scivolando sui ciottoli della Skadarlija, mentre i contrabbassi degli zingari suonano impazziti; ci soffochiamo di storie attraversando le grandi strade comuniste, i parchi, le villette un po’ scrostate e un po’ bombardate di Belgrado. Ci siamo: ultimo piano, una mansarda. Veniamo assaltate da tre cani immensi e bavosi, esaltatissimi.

«Questo è il più piccolo, si chiama Putin. Lei è la mamma di Putin, più vecchia. E questo ha avuto un ictus e ora cammina con la testa tutta storta. Si chiama Nando»
Sasha è un omone enorme, testa rasata e barbone lungo mezzo nero e mezzo grigio. Occhi piccoli, scurissimi, abbronzato. Un armadio. Tiene a bada quelle tre bestie come una specie di guardiano di draghi. Vederli insieme è impressionante. Per non parlare di quando chiama il piccolino: Nan-doo. Nan-doo. E lui abbaia come un tisico e cerca di camminare senza cadere di lato per via del peso della testa: uno spettacolo tenero e inquietante insieme.
Parliamo moltissimo. Lui è poliedrico e indecifrabile. La stanza piena di fumo, ci offre dei ćevapčići da mangiare col pane, beviamo la rakia, quella specie di grappa di prugna che infiamma i Balcani. I nomi cambiano da paese a paese, ma rimane sempre la stessa robaccia… 😉
E’ stato in Kosovo. «Conosco le mie vie per arrivarci, per le montagne», ci dice. Da serbo, non può certo passare la frontiera kosovara senza problemi. Ama quelle montagne. Hanno una storia che gli altri non vedono, sono intatte e ferite insieme, ma gli portano pace. Ci racconta la versione serba della storia. Pendiamo dalle sue labbra: non aspettavamo altro. Sasha è un ortodosso fervente, ci racconta dei monasteri più antichi dell’ortodossia serba, rimasti quasi tutti in Kosovo, e distrutti da rappresaglie albanesi. Ci racconta dei pope scappati, uccisi. Delle mafie kosovare, dei traffici di droga mondiali che transitano di lì, della guerra.
Poi si fa serissimo: «Non vorrete mica andarci? E’ pericolosissimo»
Chi, noi? Per carità, gli diciamo.
Grande bugia. L’ultimo nostro viaggio balcanico era proprio per finire laggiù, in quello staterello impossibile. Per capire un po’, o almeno provarci, per vedere. Anche per rimanere delusi, se necessario. Facciamo il suo gioco.
Putin sbava e si agita, sbatte contro la porta. Sasha ci racconta del Monte Athos, la Repubblica monastica del terzo dito della Penisola Calcidica in Grecia. E’ stato anche lì. Aveva addirittura pensato di farsi pope, molti dei suoi amici dopo essere stati ad Athos lo sono diventati. Le donne non possono entrarci dall’anno 1046. Ma quindi com’è? La curiosità mi divora. E’ un paradiso rigoglioso. Un luogo per la pace dell’anima. Ci dice solo che nessuno ne esce uguale. Lì dentro vai in crisi e non sai più chi sei. La maggior parte dei suoi amici sono rimasti, non potevano più scontrarsi con il mondo esterno. Lui è tornato.
Nel suo bagno ci sono mutandine di pizzo e reggiseni, bagnoschiumi profumati ai fiori, bava di cane per terra, un casino totale, cinquanta asciugamani e shampoo diversi. Torno in sala. Sasha riempie i bicchieri di rakia. Mi sento di stare andando a chiedere l’oracolo al dio del tempio.
«Senti, Sasha. Ho una vescica enorme sotto il piede» (chi mi conosce sa quanto soffro di vesciche ai piedi). Devo scoppiarla? Devo tenerla? Che ci devo fare? Non so.«Mi affido a te.»
Sasha non risponde. Va in cucina. Si affaccia, sorride, e sfodera un coltello di trenta centimetri. «Io dico che va scoppiata…». Impallidisco quasi al punto di svenire. Scherzava! Prende un ago e lo sterilizza sul fuoco, poi torna e mi dice che nell’esercito jugoslavo non esisteva che tu ti tenessi quella roba sotto i piedi e che non sarei resistita cinque minuti nei loro stivali. Andava scoppiata, a qualsiasi costo.
Sasha mi rovescia un bicchiere di rakia sul piede e inizia a trafficare mentre lotto con tutta me stessa contro la morte per paura degli aghi…
Quando Sasha finisce scoppia in una grassa risata e i cani abbaiano all’impazzata, pieni di gioia. Che casa di matti. E’ notte fonda, arrivavo in direttissima dall’Ucraina con circa 3 ore di sonno alle spalle e una dozzina di ore di treni, aerei e ritardi in omaggio, ero appena sopravvissuta al trattamento vesciche di un ex militare jugoslavo e alle grinfie di tre cani enormi di cui uno di nome Putin e uno storpiato da un ictus. Insomma, tutto regolare, no?
Le risate sfumano, i cani si addormentano e noi sprofondiamo in un sonno ai vapori della rakia e della spossatezza. Il giorno dopo ci aspettava un treno per Podgorica, Montenegro. 10 ore alla solita velocità di bradipo morto, ma forse tra i paesaggi più incontaminati e mozzafiato d’Europa. A Podgorica, l’ultimo raccatto-compagni del nostro viaggio, Dario/PrinceOfPersia (che ci avrebbe aspettato per ore e ore, visto che tra Serbia e Montenegro il nostro treno era tipo sparito e hanno più o meno dovuto ricostruirlo da zero e stiparci su di nuovo). Da Podgorica all’Albania, dall’Albania alla Macedonia e poi al Kosovo. E da lì tutta in autostop fino a casa, in Italia.
Da Radio Balcani oggi è tutto.
Alla prossima!
Grazie ♥
Eleonora
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