Storia di quando sono stata ospitata a dormire da un bigliettaio delle ferrovie uzbeche

Pubblicato il 17 Luglio 2017

Scritto da Eleonora

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Asia Centrale. Uzbekistan, Valle di Fergana, stazione dei treni di Andijan. 3 maggio 2017, ore 20

– Senta, chiedo a lei perché è stato molto gentile. Sa se qui, ad Andijan, ci sono ostelli economici? O se questa kassa è aperta tutta la notte? Magari potremmo metterci lì, sedute in un angolino, e aspettare il primo treno per Samarcanda, quello delle 6.

– Certo, dievushka, questa kassa è aperta sempre e voi potreste stare qui di certo. C’è anche un albergo, l’unico della città, proprio qui di fronte: ma è così caro per due dievushki come voi! Credo che sia meglio che voi veniate a dormire a casa mia.

Non sono sicura di aver capito bene. Ammutolisco e penso. Sara mi incalza. Che dice, che dice? Cos’ha detto? Possiamo stare qui, sì?

 Dice che… ci invita a dormire da lui. Mi sembra una brava persona. Lasciami fare un altro paio di domande. Senta, ma a casa sua chi c’è? E’ molto gentile ma, sa, vorremmo essere sicure di poterci fidare di lei.

– Ma certo! A casa mia ci sono mia moglie, i miei due figli, mia mamma e mia sorella, che è un’insegnante di inglese. Potrete parlare in inglese con lei e abbiamo una camera per gli ospiti.

Non sono convinta, ho quella tensione allo stomaco delle decisioni difficili e un po’ rischiose. Ma qualcosa mi dice che posso fidarmi. Lui è calmissimo, sereno nella sua camicetta azzurra da bigliettaio delle ferrovie uzbeche. Non ha la tensione di chi ti sta mentendo. Guardo Sara, che inizia a capire bene il russo dell’Asia Centrale – zhenà, synov’yà, mama, sestrà. Non dice nulla. Mi guarda coi suoi occhi grandi di quando dobbiamo correre un bel rischio. Gli occhi della carne dell’orso*, delle cazzate folli adolescenziali di cui rideremo fino alla fine. E’ un sì, un sì con trepidazione.

Paidiòm, dico. Andiamo.

*questo termine l’ho preso in prestito da Primo Levi, uno dei miei scrittori preferiti. Ne parla in un racconto bellissimo de Il Sistema Periodico, “Ferro”. Salvatelo da leggere dopo.

Welcome to Uzbekistan. Perse nella Valle di Fergana

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Ma andiamo con calma. Non vorrete mica che vi bruci tutta questa storia gustosissima così, con due parole sussurrate attraverso un vetro di una biglietteria. Prendetevi il vostro tempo, e preparatevi a una bella storia. Dovete sapere che arrivavamo da situazioni deliranti, devastatissime, scampate alla morte già plurime volte, e lui, il nostro bigliettaio di cui non ricordo il nome, era il nostro primo, vero incontro uzbeco nella Valle di Fergana.

Ero appena sopravvissuta a una notte su un furgone merci che trasportava carote (e se non hai già letto la storia, penso proprio che non dovresti perdertela), una delle mie uniche scarpe era andata dispersa da qualche parte in Kirghizistan ed ero stata costretta ad equipaggiarmi di un paio di tarocchissime Excalibur made in China.

Con l’umore a terra dalla grave perdita, mi ero anche guadaganata la pezzata acida del viaggio scalando la Montagna Sacra di Osh, la città principale del Sud del Kirghizistan. La città, che fa proprio da confine con l’Uzbekistan nella Valle di Fergana, ha un’aria completamente diversa dalla capitale, Bishkek.

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A dire il vero, sulla Valle di Fergana, ne avevo sentite di tutti i colori. Che fosse pericolosa, fondamentalista islamica, che ci fossero forti tensioni etniche e (ma questo dato è tristemente vero) fosse la fabbrica numero uno di terroristi centroasiatici unitisi all’ISIS.

In effetti, arrivando dalla modernità post-sovietica ma internazionale, russificatissima e rilassata di Bishkek, ci si sente un po’ come un finlandese che atterra a Baghdad. Sì, un russo elementare lo capiscono un po’ tutti, ma spesso ti senti rispondere in kirghiso o in chissà quale altra lingua. Se a Bishkek ti devi impegnare per trovare un hijab, a Osh tutt’altro. Il che mi stupisce, perché indossare un velo islamico in un paese post sovietico significa decine di rogne statali: più controlli e fermi random dalla polizia, più domande quando varchi una frontiera, zero chances di lavorare nel pubblico e poche più nel privato.

In più Osh, assolata città di carovanieri, ha vinto il premio Cane Randagio 2017. Cioè: è la città dove ci siamo tirate dietro più cani randagi molesti di tutto il viaggio. E ammetto che se in Uzbekistan erano più che altro ragazzini curiosi con un po’ di ormone di troppo, che volevano solo farti un complimento spassionato (“amo le tue sopracciglia” premio Fantasia), ad Osh siamo letteralmente state pedinate per un buon quarto d’ora da un intero branco di questi annoiati e sciocchi giovini kirghisi.

C’è chi ti saluta, ed è ok; chi si fa un selfie di nascosto con te, e glielo passiamo; c’è chi prova ad approcciarti impacciatamente, ma poi se ne va; chi ti si siede praticamente in braccio su una panchina, e ti fissa per interminabili minuti, rapito, coi suoi cinque centimetri di distanza dalla tua guancia sinistra. Chi ti chiama come un ossesso e ti segue per mezzo viale; e chi ti individua nel prato della Montagna Sacra di Osh, ti lancia un paio di fischi e ti aspetta lì per una mezz’ora, per poi seguirti importunandoti in tutte le lingue della Terra finché non torni in città.

Ma vi avevo promesso di parlare dell’Uzbekistan. Senza fretta, sudate marce e un po’ girate dalla giornata faticosa ad Osh, camminiamo verso il confine uzbeco. Che si rivela, ovviamente, un parto plurigemellare ben oltre i limiti della follia. Ne parlerò in un post separato.

Sopravvissute a cinquemila poliziotti armati di mitra ci incamminiamo, a piedi, lungo l’unica strada e attraverso piccoli villaggi che si risvegliano col calare del sole. La Valle di Fergana è verde, verdissima, tranquilla, fertile. I vecchi discutono animatamente sugli usci di casa, ragazzine tornano a casa da scuola, bambini con occhi grandi azzurri ci seguono e giocano in strada coi bastoncini. Le mucche pascolano in libertà, un vecchio annaffia le viti. Tutto cresce rigoglioso, e la polvere del deserto di Osh sembra lontana mille chilometri.

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Rifiutiamo tutti i passaggi di taxi. Vogliamo goderci la ricompensa dorata dal sole di questo faticosissimo ingresso in Uzbekistan. Se arriverà un autostop, bene. Altrimenti pianteremo la nostra tendina su un colle, tra una mucca e un vigneto. O chiederemo a qualcuno di poterla piantare nel suo giardino. Qualche chilometro dopo tiro sul il pollice e arriva un passaggio. Dove dovete andare?, ci chiedono. Dove andate voi, rispondo. Non abbiamo una meta, ci lasciamo guidare dal viaggio.

Il sole indora il paesaggio intorno, il vecchio di fianco al guidatore parla senza sosta, è un russo dell’Uzbekistan. Ci lasciano nella via centrale di Andijan, la città più grande della Valle di Fergana, nonché capolinea del treno.

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Ci fiondiamo subito sotto la scritta trash-luminescente vokzal, stazione, e poi alla kassa. Niente treni. Allora stazione degli autobus, ma è già sera, è tutto fermo.
Insomma: senza soldi uzbechi, le carte di credito non sanno nemmeno cosa siano, il WiFi non esiste perché è troppo costoso, senza un passaporto uzbeco non puoi comprare una sim card uzbeca e nessun trasporto pubblico per arrivare in qualsiasi altra città del Paese. Top, vero?

A casa del bigliettaio delle ferrovie uzbeche

Così eccoci di nuovo al nostro bigliettaio, ché so che fremete dalla voglia di sapere se era buono o cattivo. Lo seguiamo nel buio delle notti uzbeche, senza lampioni, senza luna. Chiacchiero giovialmente in russo, mentre cerco di tenere a mente la strada fatta a piedi in caso dovessimo tornare alla stazione.

Saliamo in macchina e da lì perdo l’orientamento. Potremmo essere dovunque. Ad un certo punto si ferma, ci dice di aspettare cinque minuti. Torna con due piatti pieni di frutta secca e ce ne regala uno a testa. Dobro pozhalovat’ v Uzbekistan, ci dice. Benvenuti in Uzbekistan!

Guidiamo in stradine tortuose e sterrate fino a un cancello di metallo, chiuso. Lui batte leggermente alla porta, io mi sento sospesa. La porta si apre leggermente. Andate, ci dice.

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Tre bimbi festosi ci corrono incontro e ci abbracciano urlando welcome, welcome, welcome!, due donne silenziose con occhi grandi e capelli nerissimi lunghi incedono piano.

We love to have guests, ci dice Gulya. Abbracciamo tutti, anche la nonna.

Seguo Gulya nella piccola stanza degli ospiti, affacciata, come tutte le altre, sul cortiletto interno. Sara è ferma, travolta da un fiume di ricordi. Mi ricorda la casa dei miei nonni, in Tunisia, mi dice. C’è un grande albero al centro, un gran fresco nella notte. Tutta la casa è costruita intorno all’albero del cortile.

Gulya fa l’insegnante di inglese. Insegna in lingua, ci fa vedere dei video delle sue lezioni e dei suoi ragazzi. Non è mai uscita dall’Uzbekistan, ma sogna di visitare l’Europa un giorno. La loro moneta vale così poco che, nonostante in Uzbekistan si viva abbastanza bene, tutto quello che è estero è totalmente inaccessibile. La nonna arriva con del tè, il classico tè verde uzbeco molto zuccherato. Lo versa tre volte in una tazzina senza manico dipinta di blu e lo rovescia di nuovo dentro la teiera. Poi lo assaggia appena, per mostrare agli ospiti che non è avvelenato.

Lei e Gulya sussurrano qualcosa avvicinando i due palmi delle mani al viso e liberando la voce e le mani verso l’alto, come se inviassero parole al cielo, o si sciacquassero il viso con acqua invisibile. Io e Sara rimaniamo immobili, rapite da questi rituali. Sara capta qualche parola araba.

We always send our best wishes for our guests to Allah.

Non abbiamo gesti o parole per ricambiare la gioia che ci esplode nel petto. La babushka uzbeca mi stringe le mani nelle sue, mi sussurra in uzbeco cose che non capisco. Ci porta una cena maestosa, che mai e poi mai ci saremmo aspettate. Gulya ci spiega tutti i piatti, le zuppe, il leggendario plov, la carne, ci porta dolci e bibite a volontà. Chiacchieriamo tutta la notte.

E’ divorziata da poco, suo figlio è un ragazzino molto sveglio che la illumina in viso. Ci stampa una guida in inglese dell’Uzbekistan, ci racconta quello che sa e che può sulle città sacre di Samarcanda, Bukhara, Khiva; noi le raccontiamo dei modi che ci sono per viaggiare in Europa spendendo poco, la invitiamo a venire da noi in Italia. Percepisco la sofferenza di essere un’insegnante di inglese che non può lasciare il suo Paese e praticarlo, vivendo nella Valle di Fergana.

Siamo stravolte, il giorno dopo avremmo dovuto alzarci alle cinque per comprare i biglietti del treno alle 6, per assicurarci di trovare posti per Samarcanda. Gulya e la nonna srotolano i tradizionali letti dell’Asia Centrale, ovvero qualche strato di spesse coperte appoggiate su un bel tappeto e un cuscino.

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Ci alziamo alle 4 invece che alle 5, perché i nostri cellulari, senza rete, non avevano aggiornato il fuso orario. Tutta la famiglia, sveglia, ci accoglie per prepararci una colazione imperiale e abbracciarci.

Saliamo in macchina col bigliettaio, che ha fissato un incontro con un suo amico che lavora come cambiavalute al mercato nero. Senza i suoi consigli non avremmo mai saputo che cambiando in nero si ottiene più del doppio del prezzo ufficiale della moneta (1€ = 4000som, in nero 1€ = fino a 8500som). Ci fermiamo con l’auto, alle 6 di mattina, nella via centrale di Andijan, a pochi passi dalla stazione. Un uomo sale in auto con noi, porta una valigetta. Gli do 50 euro. Li controlla con la massima attenzione e lui, in cambio, mi dà un malloppo così spesso di banconote da 5000som (cioè circa 0.50€ l’una) che non posso tenerlo nel portafoglio, ma devo per forza metterlo nella custodia della macchina fotografica.

valle di fergana

Stupite, stordite dalle tre ore di sonno, ringraziamo il nostro amico e andiamo con lui, che inizia il turno, a comprare i biglietti in stazione. L’Uzbekistan non poteva accoglierci meglio di così. Siamo stupefatte da ogni singolo minuto speso in questo Paese così assurdo e meraviglioso. Saliamo sul treno, in tutto e per tutto identico a quelli russi che tanto amo, dirette a Samarcanda.

valle di fergana andijan

A breve, le prossime puntate.

Grazie ♥
Ele

Ps. Gulya e la moglie del bigliettaio hanno fatto moltissime foto di noi tutti insieme, ma non ce le hanno mai inviate. Sara al momento è sperduta sulle rive del lago Ladoga, in Russia, senza internet da settimane. Quando tornerà le chiederò di cercare il suo contatto e di inviarcele.

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2 commenti

  • Maria Giovanna Giovannetti

    Il tuo racconto è affascinante. mi piacerebbe tanto visitare questi paesi, ma temo di non aver piu’ eta’. Forse con un viaggio organizzato. Comunque continuerò ad informarmi.

    • A

      Grazie Maria Giovanna!
      Sì, sono zone ancora abbastanza difficili da visitare “bene”, perché non sono molto attrezzate, specie la Valle di Fergana. Un viaggio organizzato (ma bene) mi sembra un’ottima idea.
      A presto!
      Ele

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