Questa è la storia di quando abbiamo dormito su un furgone merci in Kirghizistan, e di come mi persero una scarpa dal suddetto furgone. E’ una bella storia, fidati. Prenditi del tempo per te, leggitela con gusto. Quando aspetti che l’acqua bolla, quando la lavatrice non ha ancora finito di girare o anche quando sei, semplicemente, solitario sulla tazza, ad aspettare quel momento lì.
Buona lettura!
In Kirghizistan (Kyrgyzstàn in russo e kirghiso) i treni non esisteranno mai. Nel senso che sarebbero fantascienza. Il paese non è troppo grande, ma le montagne sì. Quelle, credimi, sono la cosa più grande e maestosa che vedrai mai nella tua vita. Spostarsi tra le due città principali, Bishkék e Osh, è una sfida notevole. Laggiù, nel cuore dell’Asia, si vive incastrati tra muri di roccia e ghiaccio perenne.
Nemmeno le marshrutki collegano Osh con Bishkék. L’unica è andare in taxi collettivo, 10 ore.
O in furgone merci. 18 ore.
No aspetta. Hai detto furgone merci in Kirghizistan?
Proprio così, caro painderoutiano. Un furgone merci in Kirghizistan è un camioncino entro cui si ricava qualche metro quadro in alto per far dormire sdraiate tra le 4 e le 8 persone. Il nostro poi era livello PRO: era un furgone carote.
Un furgone merci in Kirghizistan passa sempre dal Dordoy Bazaar, un immenso mercato a nord di Bishkek fatto interamente di conteiner impilati e tagliati. Già capire da dove esattamente partissero è stata un’impresa. Prima di tutto perché, nel mio russo uga-uga, per chiedere se esiste un “furgone merci che parte da qui verso Osh su cui puoi dormire e che non costa più di 700som” ci sono voluti cinque minuti, ricompensati da un sorriso full-gold di una babushka che pulisce i cessi immondi del bazaar.
Mi guarda con occhi pieni di affetto e curiosità (e trentadue denti d’oro):
– Ah, ho capito! Gli SPRINTI! Certo, certo che ci sono. Sempre dritto per di là*
*Perdonatemi un appunto, cari painderoutiani. I centroasiatici non sanno dare le indicazioni. Cioè, per loro qualsiasi posto è proprio lì, non lontano, lì dietro, insomma. Sempre dritto e in linea d’aria ci arrivi. Cinque dieci minuti. [mi ci rivedo molto in questa percezione spazio-temporale, e questo non fa altro che confermare il mio presunto genoma centro-asiatico, come potete voi stessi verificare dalla foto qui sotto]
Comunque, dopo un bel po’ di vagare a caso per bancarelle e conteiner, sbarchiamo su una polverosissima e accecante strada con qualche chioschetto di frutta, e chiediamo di nuovo indicazioni.
– Ah, ho capito! Intendi gli SPRINTERY GHIGANTI!
L’omino al bazaar si illumina, la moglie ride. Questi cosi hanno dei nomi surreali. Già mi immagino grossi camion intercontinentali viola lucido, con pupazzetti trash e tendine d’oro, che guidano verso l’infinito nel deserto del Nevada tra calendari di playboy che svolazzano e l’ultima hit di Ke$ha alla radio.
Nel dubbio si chiede conferma a qualche altro vecchio che squatta a bordo strada, che, col solito, pigrissimo gesto vago, identico al nostro scacciare una mosca sotto la canicola d’Agosto, ti fa capire che sei sulla giusta strada.
Si arriva a un deposito di camion. Chiedo agli amici nostri della cumpa dei tassisti/camionisti/gente che sta lì non si capisce bene a far cosa.
Fortunatamente sì, ce n’è proprio uno che parte massimo alle 16, kharashò? Kharashò, capitano.
Habemus passaggium.
Riusciamo a strappare uno sconticino al panzone che guida. I prezzi vanno dai 500som agli 800 circa. Noi abbiamo pagato 650 a testa (8.70€). Mezz’ora per comprare della frutta, dell’acqua, delle bevande atroci a base di cereali fermentati che solo MamaAfrika poteva scovare, e per farci contaminare negli immondi bagni kirghisi, che voglio dipingere in un quadretto impressionista: terra, buco, gabbiotto metallico e fetore irrespirabile. Talvolta anche senza gabbiotto metallico, cosicché ci si possa accovacciare tutti insieme, fianco a fianco, mano nella mano.
Scoccate le 16 il guidatore capo sposta lo SPRINT in mezzo alla piazza e inizia a raccattare clienti per riempire il piano di sopra, dove dormiremo noi. Vuole farci stare almeno 4 persone, e la temperatura là dentro supera già abbondantemente i trenta gradi.
Ammetto, infatti, di essermi stupita nel vedere il grande lettone matrimoniale (cioè, lettone: assi di legno inchiodate, una coperta-materassino kirghiso e un lenzuolo, ma sufficientemente comode) con copertona di lana. Col caldo che fa!, ho pensato. Tzé. Sciocca painderoutiana…
Sotto di noi, per il momento, ancora poche merci, perché fuori Bishkek avremmo caricato il grosso della roba in una fabbrica di sacchi per carote. Una mamma e una bambina di 6 anni salgono con noi: si parte.
La bimba è tranquillissima e la madre molto dolce, vogliono chiacchierare ma il loro russo è catastrofico. Vengono infatti dalla Valle di Fergana, la zona meno russificata e più povera, integralista islamica e mischiata etnicamente di tutta l’Asia Centrale. Trent’anni portati portati male, ha sposato un kirghiso di Osh, ma adesso vivono a Bishkék, nella capitale. Le offro delle arachidi. Non aveva mai visto né un passaporto biometrico né monete o banconote di euro. “Sono bellissime”, mi dice.
Alla prima sosta fuori Bishkék si può scendere, sgranchirsi le gambe (la sensazione da sdraiati è quella di una spaziosa cassa da morto) e andare in bagno. La mamma mi chiede se ho della pomata.
La guardo stupita. Della… cosa?
– Pomata, pomata!
Me la indica: ah! In russo è bumaga, carta igienica. Santo cielo! Certo, gliela presto. In Russia e Asia Centrale si usa spessissimo la carta igienica riciclata, di un invitante color marroncino ruvido ruvido, che gratta via tutto alla perfezione. Che dire? Il suo lavoro lo fa ed è pure ecologica…
Il bagno è infestato di mosche e puzza da far venire il vomito. E’ un altro buco rettangolare nel terreno. La turca, in confronto, è un portento dell’ingegneria idraulica e del design. Certo che noi occidentali siamo di un viziato…
Superata l’ennesima sfida fisiologica, si fa un giretto nel capannone di lavoro. Ci sono tante donne velate che cuciono dei sacchi di plastica per carote con aghi giganti e fili di plastica dura. Mani severe, serissime, velocissime. Il capannone è deserto. C’è una mucca che sgranocchia carote brutte e deformi, un bimbo e un nonno che giocano investiti da un fascio di luce surreale. C’è una dolcezza molto matura e consapevole in entrambi, il nonno ha la faccia triste e scavata dalle rughe. Il bimbo gli si arrampica dovunque con una tenerezza seria. Spesso i bimbi qui sono così silenziosi… Mi apposto vicino al furgone e scatto.
Il camion viene stipato di carote fino all’inverosimile, e i nostri zaini “incollati” tra il muro di carote e il portellone del retro, che quando è aperto sembra una schermata di tetris, il giochino con cui mi sono bruciata migliaia di neuroni a sette anni.
Si riparte, e il sole inizia a calare. Si sale verso quell’immenso muro di montagne che separa Bishkek, in pianura, dal resto del paese. Il pereval, il passo Too Ashuu, è a 3600m: roba da capogiro, soprattutto contando che Bishkek è a 600m di altitudine. Più si sale, più capisco il senso delle coperte di lana. I conducenti del camion ascoltano la stessa musica zarra russa in loop da ore tenendo un finestrino aperto per fumare, che a loro rinfresca e a noi in alto congela le dita dei piedi, proprio sopra le loro teste. Crolliamo spossate, sulla lagna di esli ty menya ne lyubish’ (il ritornello dice “se tu non mi ami, allora neanch’io; se tu mi dimentichi, lo farò anch’io di risposta”), impreziosito dai gemiti della mamma che vomita sonoramente in un sacchetto mentre la bambina la accarezza e le sussurra qualcosa in uzbeco.
Per entrare più a fondo nel racconto, sparatevi questa robaccia al massimo.
Nel cuore della notte, forse all’una o alle due, arriviamo al passo. Fa un freddo boia, gli aliti fumano. Mi sono svegliata perché la bambina ha la tosse, dorme in diagonale e mi sta spiaccicando contro il finestrino ghiacciato. Per giunta, ad ogni colpo di tosse le parte un riflesso automatico per cui tira un calcio alla coscia di MamaAfrika, che soffoca le peggiori bestemmie veneto-foggiane.
Chiacchiero coi tre conducenti: mezzo Kirghizistan ha lavorato almeno un paio d’anni a Mosca. Sanno persino quali supermercati ci sono intorno a dove vivo. Un po’ tutti finiscono per tornare, delusi e nemmeno arricchiti. Mosca è una città per miliardari, non per poracci. E’ una dura verità. Che si capisce solo da qui, da un pereval di 3600m a due passi dalla Cina.
Fuori ci sono metri di neve, la strada è ghiacciata e con più buche che altro. Perché?
– Perché il presidente è un cane. Pensa solo a macchine costose, elicotteri, piscine per sé e lascia le strade del paese nella merda. Ecco perché ci sono le buche.
Chiaro e limpido, capo. Risprofondo nel sonno del trash pop russo e mi sveglio al mattino, a un paio d’ore da Osh. Siamo fermi per sosta pipì. In Asia Centrale per pisciare in un buco in terra immondo devi sempre e comunque pagare. Una miseria, ma devi pagare. E se non hai i soldi te la fai addosso. Punto. In quella fogna non ci entri: dovrai passare sul cadavere di una babushka agguerrita.
Scendo rintronata, con le vertebre disallineate dalle assi di legno e assordata dalla musica a palla, arrivo fino a sentire il fetore del bagno quando la babushka mi blocca la strada.
Baba, ti prego. Faccio schifo. Mi sto pisciando addosso, il camion è dall’altra parte del parcheggio e non c’ho li sordi. Eddai, famme passa’, babina cara bella.
“Informiamo la gentile clientela che nessuna lamentela non-kirghisa verrà ascoltata o accettata”
Risalendo sul camion chiedo dove mettere le scarpe, e i tre scagnozzi mi dicono di lasciarle sul gradino di fianco al volante, perché negli altri buchi sotto non c’era più posto. Mi fido, e si va.
Arrivati ad Osh facciamo qualche altra sosta nel bazaar per scaricare le carote e poi si arriva all’autostazione, al confine con l’Uzbekistan.
Scendo, accecata dal sole, e trovo sul gradino una sola scarpa.
Panico. La stanchezza vince sulla collera. Anche perché di scarpe ne avevo un solo paio (delle nuovissime Skechers, fra l’altro), le infradito di MamaAfrika sono di sedici numeri più grandi e camminare in infradito in Asia Centrale significa farsi divorare i piedi da un’infezione malvagia o perderli in una buca o dando un calcio ad un sasso. La scarpa è perduta, non c’è. Sarà caduta da qualche parte insieme allo scarico carote.
Nell’ex URSS arrabbiarsi è inutile, perché ti chiuderai tutte le porte in faccia e basta. Ma se sei una ragazza giovane e riesci a inscenare un piantino a comando, forse qualche speranza si apre.
Ele usa Lacrime A Fiotti.
Vi preeego, vi preeeego. Sessanta dollari, sessanta dollari di scarpe! Vi preeego, trovatemele, non posso camminare così, ne ho solo un paio!
Sembra che, mortificati, stiano andando a cercarle, così ci mettiamo su un gradino a sbucciare un po’ di frutta e ad aspettare alla centroasiatica. Dopo un’ora abbondante, il camion è ancora lì ma dei guidatori non c’è traccia.
Così lascio il mio numero kirghiso a una cricca di tassisti abusivi infami, avidi e malvagi come tutti i tassisti post-sovietici. Li supplico di chiamarmi quando vedranno ricomparire i proprietari del furgone. Una decina di brutti ceffi seduti all’ombra ad aspettare qualche cliente da molestare. Visto che comunque la scarpa è persa, preferisco non buttare la giornata ad Osh e rimediare con un paio di scarpe del bazaar.
Essendo ad un passo dalla Cina, tutte le scarpe sono copie perfette di grandi marche e costano una decina di euro. Sono assolutamente inadatte a camminare e fatte interamente di plastica. Le scarpe da donna sono tutte rosa, con finti diamanti e tacco 12: per le scarpe da ginnastica esistono quasi solo taglie da uomo. Così mi accontento di un paio di orribili finte Asics con suola flessibile, ma dura come il marmo. Ci sta pure scritto EXCALIBUR sopra. Sento che era destino che io e queste EXCALIBUR ci incontrassimo.
A fine giornata ancora nessuna chiamata dei tassisti infami. Le scarpe sono andate. Quando torniamo per varcare il confine uzbeco, il furgone non c’è più, i tassisti sono ancora lì, con le loro facce di cane che bofonchia il loro infamissimo nye snayu (“non so”).
Il mito ci insegna che: non bisogna fidarsi dei tassisti e camionisti post-sovietici; ma soprattutto che la presa a male per le sfighe del viaggio passa con delle EXCALIBUR made in China all’ultimo grido.
Alla prossima, painderoutiani!
Ele
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7 commenti
Giulia Calli
Mi piacciono un sacco i diari di viaggio spontanei, i mozziconi di conversazioni con estranei, senza eccedere nei dettagli… sanno tanto di viaggio in corso.
Stefano Tomada
Lo ripeto spesso, durante un viaggio le storie più autentiche, le storie più belle da raccontare si trovano per strada, tra la gente. E comunque ti confermo che anche ad Urgench in Uzbekistan i tassisti sono infami, come un branco di iene. Brava Ele!
Eftichia
a mio avviso dovresti avvertire la ditta Excalibur per diventare il loro testimonial…ne sarebbero fieri… pensavano di produrre scarpe per gente anonima ed invece eccoli passare alla storia!
Eleonora Pain de Route
Mi hai spezzata, Eftichia! Li contatterò subito per una collaborazione, ahaha!
Mahamoud
è un modo bellissimo di viaggiare con la fantasia…
Giulia
Ma no, che personaggi hai incontrato nel tuo viaggio! Mi dispiace per le scarpe, però dai quelle “taroccate” non sono poi così malaccio, me le aspettavo di qualche colore fluorescente 😀 interessante anche il letto ricavato dal furgone, ma l’aria un minimo circola?
Un abbraccio!
Eleonora
Ahahaha grazie, le Excalibur ringraziano!
Sì, più o meno: c’è un finestrino laterale, che poi sarebbe quello del portellone, che si può aprire, e poi tieni conto che tu hai i piedi in testa ai conducenti davanti, quindi su uno dei quattro lati la cassa da morto è aperta, e se loro tengono aperto un altro finestrino allora l’aria circola bene 🙂
Grazie mille Giulia!
A presto