Storie dalla Turchia. Un treno per Smirne

Pubblicato il 22 Maggio 2016

Scritto da Eleonora

Finalmente la partenza per Smirne (in turco İzmir, in greco Σμύρνη), arrivando dall’afoso Sud – il Dodecaneso, Bodrum e poi Selçuk, il paesino più vicino al sito di Efeso.

Incredibile ma vero la ferrovia raggiunge Selçuk, le cui uniche attrazioni sono un enorme acquedotto romano interamente rivestito di poster di Ataturk e l’area dove sorgeva l’Artemision, tra le 7 meraviglie del mondo antico – usato senza problemi da Giustiniano per costruire Santa Sofia a Istanbul, quindi oggi inesistente.

Il nostro viaggio: le tappe

Da Kos e Nisyros (Dodecaneso), non segnate sulla mappa, a Bodrum (una delle poche “frontiere via mare” tra Grecia e Turchia); poi su sulla costa fino a Smirne e Bursa, in traghetto fino a Istanbul, e da lì pullman fino a Bulgaria (Plovdiv, Sofia, Rila) e Serbia (Belgrado), in 16 giorni. Volo di andata: easyjet su Kos (20,23€); ritorno: easyjet su Belgrado (36€, ma oggi rotta cancellata!)

Da Selçuk a Smirne

Storditi dalla colazione a base di cetrioli sconditi della moglie giapponese (?) di Ramzan, il tipo che ci ha raccattati alla stazione degli autobus nella specie di ostello-casa sua, e soprattutto dalla meraviglia del sito di Efeso (per entrare devi vendere un rene, ma ne vale la pena: 15€ spesi benissimo), ci trasciniamo alla stazione dei treni.

Quando il treno arriva la gente cade fuori non appena le porte tentano di aprirsi. Saliti a bordo, facciamo training psicologico per le due ore e mezza da sardine in piedi o, per esaurimento, seduti per terra e calpestati dagli altri. Tra Selçuk e Smirne, c’erano almeno 12 fermate in mezzo alla brulla campagna turca: e ovviamente non è sceso n e s s u n o. In sostanza, la speranza che la situazione migliorasse e il passare delle fermate in mezzo al nulla erano inversamente proporzionali.

In questo delirio, improvvisamente, sentiamo le urla del venditore di ayran e simit: un ciccione in camicia che sbraita in turco cercando di farsi largo tra le masse incastrate nei corridoi e, incredibilmente, ci riesce, tenendo sopra la testa i chili di simit (tipo un bretzel turco al sesamo) legati a un bastone. Il suo amico schiavetto lo segue con una vasca piena di ayran in confezioni stile estathé, con cannuccia e tutto (e come avrei voluto che quella roba fosse uno schifosissimo estathé! L’ayran è la fase intermedia tra latte e yoghurt ma con la “geniale” aggiunta di sale. Il primo è buono, il secondo già… ehm, ecco, no).

Il simit-man, una buona sintesi dello spirito turco: la cosa sbagliata al momento sbagliato. Ma in Turchia tutto, incredibilmente, si risolve sempre.

Questo folle vende così bene ai passeggeri stipati che anche noi finiamo col comprargli del cibo… prima che ci scavalcasse disprezzando chi gli intralcia gli affari.

Ero (s)vestita con la classica tunica-straccio che dura 4-5 giorni senza bisogno di lavaggi. Di fianco a me, una coppia di sposini freschi freschi, tranquilli e pudichi. Nella pezza e nel disagio, inizio a cercare di caricare i miei novemila chili di zaino sulla cappelliera sopra di loro; nessuno sa perché, ma faccio dei versi di sforzo incredibili, facce indicibili, e mimi idioti che fanno spezzare dalle risate la ragazza che, per com’era bardata e velata, sembrava davvero il mio opposto.

Eravamo un po’ due universi troppo distanti; ma come ha riso, come ha riso! Una risata enorme e senza freni, e forse non avrei potuto avere pubblico migliore. Mi ha ringraziata tanto e io le ho fatto il braccio da “strong lady, we can do it!” in segno di amicizia.

Ecco, il treno stipato, il maledetto simit-man e la ragazza con il turban che ride in libertà sono un buon quadro della Turchia moderna: tenetelo a mente prima di partire 🙂

Smirne, come ogni città turca che si rispetti, regala un bel trauma da caos e traffico per la prima mezz’ora; ti senti sempre d’intralcio: quando attraversi la strada, quando cammini nei grandi viali insieme ad eserciti di altre persone, quando sgusci nei vicoli e capiti nella traiettoria di uno che lancia del cibo ai cani randagi, o in quella di un accattone che scorrazza placido coi suoi centoventi chili di spazzatura.

L’unica fonte di pace è il mare che, anche se in uno dei porti più grandi del mediterraneo, ti toglie il respiro – con la sua brezza, le sue luci, i grattacieli a venti metri dalle onde, la sfilata delle navi, le canne da pesca a perdita d’occhio e le montagne del golfo che, qualche chilometro più avanti, calano docilmente nell’orizzonte blu.

Gemella della greca Salonicco – per la vocazione cosmopolita e per le colate di cemento scriteriate, per i piccoli angoli di colore incrostato scampati agli incendi, stupri, eccidi e distruzioni che tracciano i lineamenti di una storia travolgente (in tutti i sensi) – Smirne vale la pena di essere esplorata, anche solo in un giorno, per cercare qualche traccia delle migliaia di armeni, ebrei, greci che per secoli hanno abitato questo porto e oggi sono quasi scomparsi, scacciati o uccisi dopo la marcia su Smirne di Ataturk dei primi anni ’20.

Forse noi venivamo dalle barche a vela degli inglesi ormeggiate nel porto di Bodrum, o dai vecchietti di provincia seduti ai bar di Selçuk; ma vi stupirete nel vedere quanta gente e quanta vita c’è di notte nei quartieri del nord, come Alsancak, o quanto sono belle le case consumate dalle vicende storiche nei quartieri del sud, salendo sulla montagna verso la fortezza di Kadifekale, fondata da Lisimaco.

Oppure perdetevi, come abbiamo fatto noi, tra le sfumature del tramonto sul golfo, per poi addentrarvi nella città moderna alla ricerca dei piccoli baretti soffocati dal fumo dei narghilé.

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