La nostra inviata speciale Claudia G., un’italiana di stanza a Cheboksary, in Ciuvascia (una repubblica della Federazione Russa un dozzina di ore di treno a Est di Mosca) ci scrive di nuovo. Dopo un primo, esilarante reportage sulla mania delle foto in Russia, torna al contrattacco raccontando la sua esperienza da insegnante con le abitudini educative russe. L’educazione dei figli è, in Russia, ancora talmente importante che i bambini vengono mandati nei campi educativi anche durante le vacanze, anche in pieno inverno.
Vi starete chiedendo perché un’italiana si faccia sottopagare, sfiancata da turni interminabili, dal clima gelido della Ciuvascia e dai ritmi senza sosta tipici della Russia. La risposta, sorprendente ma verissima, Claudia ve la racconta con una semplicità incredibile. Ed è una delle grandi bellezze invisibili della Russia.
Buona lettura!
Eleonora
Tutti in campo
Considerazioni dopo una settimana di lavoro in un campo invernale a 20 gradi sotto zero.
articolo e fotografie di Claudia G.
I bambini sono il nostro futuro – amateli! La scritta campeggia in rosso su un poster grande quanto un portone. Raffigura due bambini di pochi anni, un maschio e una femmina, seduti in campo di fiori colorati. La bambina tende graziosamente il braccino paffutello per offrire un fiore scarlatto all’amico. A vederla adesso, in pieno inverno, sembra impossibile che una foto così possa essere stata scattata in Russia. Oggi, nello stesso campo che in primavera inoltrata (quasi estate, per chi come me è abituato al clima mediterraneo) si riempirà di primule e di bignonie, le gambe sprofondano fino al ginocchio nella neve. Questo solo perché siamo all’indomani di una copiosa nevicata, altrimenti la neve, onnipresente a Gennaio, sarebbe dura e rigida come marmo. Mi fa sorridere questo monito, che accoglie me ed una cinquantina di persone, all’ingresso di un imponente prefabbricato a mezz’ora dal centro di Cheboksary che sarà per una settimana la sede del campo invernale di una scuola di lingue. Com’è stato possibile, mi chiedo, che fra tutte le leggende metropolitane diffuse sui comunisti sovietici, una delle più famose ancora oggi sia la loro dieta a base di fanciulli? L’attenzione che l’URSS riservava alla crescita e all’educazione dei più giovani è sempre stata quasi maniacale fin dai primi anni ’20 e questa dedizione non si è certo persa con la caduta del muro.
Il tempo dei Pionieri
Facciamo un salto indietro nel tempo. All’indomani della rivoluzione, sul territorio sovietico nacquero le prime organizzazioni dei giovani pionieri: un’alternativa comunista ai meglio noti scout americani. Si trattava di colonie per bambini e ragazzi che, nei giorni di chiusura scolastica, li occupavano in attività ricreative ed educative, alle quali, nel giro di alcuni anni, furono affiancate azioni di propaganda, come la distribuzione di volantini. Naturalmente, durante il regime comunista, entrare a fare parte dei giovani Pionieri veniva descritto come un autentico spasso. Fioccavano filastrocche e brevi racconti ai piccoli cittadini che leggevano di come i loro coetanei, stufi di stare sempre in casa a oziare e ad annoiarsi, si unissero gioiosamente ai Pionieri e vivessero con loro giornate di educativo e sano divertimento. Nonostante queste organizzazioni siano poi scomparse con la caduta del muro, il loro spirito vive ancora nei numerosi campi che enti pubblici e privati organizzano durante qualsiasi vacanza scolastica. Nessun genitore russo che abbia una modesta disponibilità economica deve temere che la progenie passi una settimana senza essere adeguatamente stimolata. Esistono campi per tutti i gusti: sportivi, musicali, teatrali, linguistici… questi ultimi naturalmente si fregiano di avere fra il loro personale (stipendiato o volontario) insegnanti madrelingua e offrono, insieme all’inglese, una collezione di lingue straniere che vanno dal francese al cinese mandarino, passando per l’italiano, lo spagnolo, il tedesco, il cantonese… Ora come cento anni fa ozio non è una parola benvista in Russia. Con una dovizia che l’italiano medio definirebbe maniacale, i bambini russi vengono sovraccaricati di compiti, sport, attività extrascolastiche di ogni genere e lo stesso campo non lascia loro un attimo di respiro, trascinandoli in un ottovolante di impegnativo divertimento. In periodo sovietico le già citate associazioni di pionieri programmavano attentamente la giornata dei bambini, alternando attività ricreative, sportive e intellettuali. Puntuali come orologi, i giovani si alzavano di buon mattino e, dopo una ragionevole dose di esercizi ginnici, avevano all’incirca una trentina di minuti per fare colazione e lavarsi, dopodiché, li attendeva una giornata rigorosamente pianificata.
Una giornata al campo invernale

Ora come allora, la pianificazione è ancora alla base dei campi. La sveglia suona alle otto e agli esercizi ginnici (dove i bambini vengono rigorosamente divisi per sesso) è vietato mancare. Solo dopo una buona dose di stretching si può fare colazione, affrontando poche centinaia di metri di camminata in mezzo alla neve che separano dalla mensa. Dopo colazione, la stimolazione: due ore di lezione di lingua, prima inglese, poi una seconda a scelta. Qui, noi insegnanti dobbiamo essere degne discepole di Mary Poppins, capaci di fare fronte a qualunque imprevisto, sorridenti ma risolute e sempre pronte, con la nostra lezione pianificata fin nei minimi dettagli, ad allestire atrii e camere da letto a guisa di funzionali aule scolastiche, con sufficiente spazio per muoversi e giocare. Non si pensi che gli esigenti genitori si privino dei loro pargoli per una settimana per fare loro frequentare delle banali lezioni frontali! Dopo aver messo in moto il cervello, bisogna pensare al fisico. In Russia i -20 non sono una buona scusa per non uscire, guanti e tute da sci esistono per questo, bambini e ragazzi si infagottano accuratamente ed escono a giocare in mezzo alla neve per un’ora. Verso l’una l’appetito si fa sentire, tutti in mensa dunque e, una volta mangiato, ecco l’ingannevole rest hour. Dico ingannevole perché mentre gli insegnanti possono effettivamente dedicare quest’ora a loro stessi e a qualche frivolo piacere, tipo lavarsi, i bambini sono incoraggiati ad utilizzare quell’ora per provare danze, balli e performance per lo spettacolo della sera, che conclude le attività e segna la fine della giornata. Il coprifuoco scatta rigorosamente alle dieci, luci spente per le dieci e mezza (e, vi dirò, dopo giornate così impegnative gli insegnanti non devono stare troppo a sorvegliare: si ronfa a tutto spiano in pochi minuti). Finalmente, quando il luminoso futuro della madrepatria dorme sonni tranquilli, anche gli insegnati possono andare a letto raggrupparsi in una camera da letto attrezzata a sala riunioni per organizzare le attività del giorno successivo e spartirsi i compiti: operazione che può tranquillamente durare fino a mezzanotte, ma chi ha bisogno di sonno quando puoi fare il pieno di energizzanti con scatole di cioccolatini russi e litri di tè, kissel e kompot’?*
Ma chi te lo fa fare?
Ma perché qualcuno, per di più straniero, per di più occidentale, dovrebbe voler lavorare per una settimana a orario continuato dalle otto a mezzanotte in un campo invernale russo, dove bisogna calcolare una buona mezz’ora per infilarsi tutti gli strati necessari per affrontare i quaranta gradi di escursione termica dall’interno all’esterno? Sicuramente non per i soldi, visto che un insegnante viene pagato per una settimana di campo meno di quello che gli spetterebbe per una normale settimana di lavoro. Né per farsi una vacanza mascherata da lavoretto riposante: vista l’intensità delle giornate sarà impossibile che riusciate a mettere piede fuori dal campo durante la settimana e, fidatevi, non avrete davvero voglia di farlo. Perché allora? Probabilmente perché siete dei pazzi e, in quanto tali, volete provare a capire di più di questi russi, che sono sempre sulla bocca di tutti, menzionati con ammirazione, con timore, con diffidenza. Non riuscirete a capirli davvero, ma se non sarete eccessivamente rimbambiti dai ritmi estenuanti, assisterete a qualcosa di prezioso.
Il senso di comunità

Della parola comunità ci si riempie la bocca volentieri. Suona armoniosa nei discorsi, è colta, senza essere troppo altisonante, possiamo tingerla di vari colori, ci serve assist meravigliosi per volgere una discussione a nostro vantaggio. Ha un che di ineffabile, la parola comunità, un significato che ognuno può interpretare come vuole, su cui si dibatte e a volte ci si scontra. Ma quando mi sono trovata davanti al senso di comunità del campo, non era più un discorso astratto né un’ipotesi o un’idea, era un’entità concreta, come la neve in cui affondavano i piedi e l’aria che rinfrescava i miei polmoni. Non potevo fare a meno di pensare comunità ogni volta che questa mi appariva davanti in tutte le sue meravigliose forme russe. La studentessa quindicenne si alzava prima degli altri, sceglieva la musica da utilizzare durante gli esercizi del mattino e coinvolgeva le bambine in sessioni di riscaldamento e stretching ed io pensavo comunità prima ancora di scrollarmi di dosso il sonno. I ragazzi più grandi controllavano diligentemente che i bambini si fossero abbottonati le giacche, infilati guanti e cappello, avvolti la sciarpa più volte intorno al collo e comunità risuonava nella mia testa come musica. Gruppetti di bambini andavano da soli a mensa, sotto il cielo lattiginoso del mezzogiorno o nel buio pesto della sera, sfidandosi in gare di scivolata sul selciato ghiacciato o correndo scalmanati per le betulle, e la parola comunità mi appariva sopra di loro, come condensa su una finestra. Era nei workshop che gli studenti del liceo erano entusiasti di organizzare, ansiosi di mettere i loro talenti a disposizione degli altri, di mostrare, di stupire, di insegnare. Era nei capigruppo che rimanevano alzati fino a mezzanotte con gli insegnanti per ideare il piano della giornata successiva. Era nei sedicenni che prendevano in braccio i piccoli del campo per fare loro raggiungere i rami degli abeti da decorare.
L’indipendenza
Lo ammetto, non sono mai stata una bambina particolarmente indipendente. Avevo quattordici anni quando preparai una valigia da sola per la prima volta. Forse avrò vissuto nella bambagia più della media nazionale, ma un bambino di appena sei anni che trasporta con destrezza una valigia grande quanto lui in mezzo alla neve e si infila autonomamente sei strati di magliette e una tuta da sci non è una cosa che da noi si vede tutti i giorni. Mi ha colpito anche la totale assenza di nostalgia. Insomma nelle varie Scuole Natura di scolastica memoria, che duravano quanto un campo invernale, arrivava sempre il momento della piccola crisi da mancanza della mamma/papà/cane. Niente di tragico ed ingestibile, normale amministrazione che si risolveva con qualche parola di incoraggiamento e una telefonata. Qui al campo invece, neanche i più piccoli sembravano patire la mancanza della famiglia. Forse, forti dei cellulari che hanno più o meno tutti (anche se non c’è stato molto tempo per usarli), sapevano di poter chiamare a casa per qualunque evenienza (non come ai miei tempi quando si doveva aspettare la telefonata settimanale) e questa sicurezza bastava a portare altrove i loro pensieri. Forse molti non hanno provato una vera e propria nostalgia, perché in quel campo hanno trovato un altro genere di famiglia.
Guardo ancora il perentorio, e un po’ ridicolo, poster per la protezione dei bambini. Non so come sarà il vostro futuro, ma il presente lo state coltivando con cura.**
*Fun fact, durante i lungo periodo invernale i russi smettono di bere acqua, soprattutto durante i pasti, e la sostituiscono con una serie di bevande caldo-tiepide, possibilmente zuccherate. Il tè, onnipresente, non ha bisogno di presentazioni, mentre il kissel, meno conosciuto, è una bevanda gelatinosa a base di lampone e amido di mais. Il kompot è fatto anch’esso con lamponi e frutti di bosco assortiti, ma almeno ha il pregio di essere liquido. Ehm… Acquolina in bocca? Nessuno…?
**Però la pasta fredda a colazione no, dai.
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