Benvenuti al secondo episodio del diario di una viaggiatrice solitaria. Martina è una mia amica tremendamente coraggiosa. Dopo un primo post su Rio de Janeiro, racconta il quotidiano di una donna da sola che per due mesi si trasferisce in una città apocalittica per fare volontariato in Brasile. Pelotas è paura, povertà, spazzatura. Ma anche accoglienza e vitalità brasiliana, così piena di contraddizioni eppure, per certi versi, davvero libera.
Buona lettura e al prossimo post brasileiro 😉
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Volontariato in Brasile nel Profondo Sud
Allora, com’è andata in Brasile?
Sono passati poco più di cinque mesi dal giorno in cui, giacca di pelle e zaino in spalla, sono atterrata sotto la neve di Milano Malpensa. E’ trascorso un po’ di tempo da quel lontano 19 dicembre, e io com’è andata in Brasile non l’ho ancora capito.
Certo, è stato incredibile. Bello e difficile, sorprendente e spaventoso.
Per sei settimane ho vissuto a Pelotas, una città relativamente piccola (300 mila abitanti) dello stato di Rio Grande Do Sul, nel profondo sud del Brasile. E’ vicina al mare e a meno di 5 ore di pullman dal confine con l’Uruguay.
Sono tante le associazioni a cui affidarsi per fare volontariato in Brasile. Io sono partita con Aiesec , un’organizzazione non governativa e non-profit. Aiesec, tra le altre cose, si occupa della mobilità internazionale di giovani studenti o neolaureati che, pagando una quota di progetto non troppo cospicua, oltre alle spese di viaggio a proprio carico, scelgono di svolgere un servizio di volontariato in Brasile o in un luogo qualsiasi del mondo. Io sono partita dall’Italia il 29 ottobre 2016 e dopo tante ore in aereo (Milano Malpensa – Lisbona, Lisbona – Sao Paolo con TAP , Sao Paolo – Porto Alegre con Avianca ) e alcune in pullman sono arrivata a Pelotas.
E’ il 31 ottobre 2016 e a Pelotas è quasi estate.
Mentre Felipe e Matheus mi danno un passaggio con l’auto della nonna di Felipe verso quella che sarebbe stata la mia casa per quasi due mesi, guardo fuori dal finestrino. Quello che vedo mi lascia disarmata. Cani randagi, spazzatura in ogni angolo, marciapiedi alti 50 cm. Desolazione.
Arrivo a casa della mia ospite, Renatinha. La casa è carina, senza pretese. La mia stanza ha un letto, un armadio con cassetti e ante rotte, una finestra e un comodino in legno. Sul divano in salotto ci sono libri, assi di legno e strumenti di lavoro – chiodi, cacciaviti mattoni. Una stanza non ha il tetto – ma tanto è la lavanderia.
Poche regole/avvertimenti fondamentali vigono in casa:
1. l’acqua non è potabile.
2. la carta igienica usata non si può buttare nel WC, bensì in un bidoncino di plastica accanto al Water.
3. L’ultima persona che rientra in casa durante la notte deve bloccare la porta con il tavolino di vetro del soggiorno.
A casa siamo io, Renatinha, un cane e una gatta. Renatinha ha 24 anni e studia giurisprudenza, sogna di viaggiare per il mondo e di trasferirsi in Australia. Sa parlare poco l’inglese, quindi già dopo un’ora dal mio arrivo mi trovo catapultata in un universo linguistico di cui capisco meno di niente. La mia conoscenza di portoghese pre partenza era pari a zero, si limitava a eu, comer, descansar, obrigada (ovvero io, mangiare, riposare, grazie). L’Abc della cultura brasiliana insomma.
Di primo acchito, il portoghese è una lingua incomprensibile.
Quando dici che stai per partire per il Brasile, in Italia tutti ti dicono che sarà facile, è una lingua neolatina come l’italiano, dai non dovrebbe essere così impossibile; invece è una vera impresa. Sarà per la caratteristica fonetica di pronunciare de e de come , sarà che tutto è –igno: aquinha, obrigadinha, polentinha. Per giunta, un posto che è molto vicino non è muito perto: è pertinho. Temevo di perdermi, incompresa da tutto e da tutti (visto che NESSUNO sa l’inglese), e invece ho imparato la lingua in poco tempo, con grande soddisfazione mia e dei miei interlocutori.
Fare volontariato in Brasile tutti i giorni di certo mi ha aiutata a imparare la lingua: ero insegnante d’inglese presso una ONG locale, l’Istituto Nossa Senhora da Conceição. Si tratta di un istituto femminile che da più di 160 anni ospita bambine di strada di età compresa tra i 6 e i 12 anni.
Più che una scuola, è un centro di accoglienza, in cui le bambine imparano, giocano, mangiano, insomma tutti servizi che le famiglie e la scuola non possono garantire. Lavoro quattro giorni alla settimana, 2 ore al giorno, anche se il resto del tempo lo passo comunque in istituto, visto che in città non c’è davvero niente di meglio da fare.
La mia giornata è organizzata così: sveglia, colazione, passeggiata in direzione della scuola, pranzo con le bambine, lezione. Dalle le 17 sono libera, e il resto della giornata è un’incognita.
Rua Quinze du Novembro, la via più importante, nonché la più lunga, di Pelotas.
A Pelotas ci sono due cinema, un centro commerciale, un parco (se tale si può definire uno spazio verde con due aiuole e una fontana) e un museo. Un paio di discoteche, qualche bar e due grandi supermercati. L’unica cosa che abbonda sono le farmacie, e i negozi di lavatrici. A proposito interrogo i miei nuovi amici brasiliani, che sembrano a loro volta stupiti dalle mie domande. Quattro farmacie una dietro l’altra, tre negozi di lavatrici in fila e poi di nuovo farmacie. Alla faccia della concorrenza.
Per il resto la città è uno scenario apocalittico. Strade dissestate, porte sprangate e vie deserte, popolate più da cavalli che da automobili. I cavalli trainano fatiscenti carri in legno, che gli abitanti della favela usano come principale mezzo di trasporto per raccogliere la spazzatura. Su di essa si fonda la loro sopravvivenza: raccolgono i rifiuti, li separano e li riciclano. La parte meridionale del Brasile è nota per essere la più ricca, eppure qui la povertà è palpabile. Ogni giorno durante la mia passeggiata verso il lavoro cammino circondata da cani randagi e da persone, per lo più bambini, che, scalzi, frugano nei cassonetti dell’immondizia. Tremendo all’inizio, normale dopo.
Ma quello che caratterizza le mie passeggiate diurne è la paura: paura di essere fermata, rapita o derubata. Assaltada. Quasi tutti i miei amici qui sono stati assaltati, chi, solo, di sera in una via buia, chi in gruppo in una strada principale sotto il sole pomeridiano.
Per una viaggiatrice solitaria in Brasile come me, donna, non solo straniera, ma europea, è stato un vero shock. Ogni volta, prima di uscire di casa, scosto impercettibilmente la tenda della porta: voglio accertarmi che non ci sia qualcuno di visibilmente losco ad aspettarmi. Esco, carta di credito nella tasca interna della borsa, cellulare a portata di mano. Non proprio in mano: sarebbe come nascondersi nella tana nel lupo. Su consiglio dei locali, io lo tengo o nella tasca dei pantaloni o in quella della giacca. Nel caso in cui dei malviventi mi vogliano rapinare, si accontenterebbero di un bello smartphone e scapperebbero subito, mi dicono, lasciandomi traumatizzata, certo, ma almeno illesa.
Testa bassa, passo rapido, mani in tasca. E dopo una ventina di minuti, varcata la soglia della scuola, tiro un sospiro di sollievo. Lo stesso di quando, a fine giornata, mi chiudo la porta di casa alle spalle. In sei settimane mi abituo a tante cose, ma a questo mai. Così come non mi abituo agli spari per la strada che durante la notte mi impediscono di dormire.
Mi accorgo che la sicurezza che io, da cittadina europea, ho sempre dato per scontato, in Brasile costituisce un traguardo ancora lontano.
Ma è ora di raccontare tutte le emozioni che il profondo sud del Brasile mi ha lasciato dentro. Tre parole che le riassumano: musica, accoglienza, libertà.
Con la musica mi svegliavo e mi addormentavo. Musica rigorosamente brasileira, è chiaro. Samba, bossanova, swing e tropicalismo. A scuola le bambine ballavano in modo impeccabile e cantavano a squarciagola durante l’ora di musica.
Renatinha mi ha iniziato a questo mondo: così anche tornata in Europa continuo ascoltare la Banda mais bonita da cidade, Mallu Magalhães, Banda do mar. Per la gente di qui, la musica è tranquillità, calma ed emozione. Ma è anche un modo per stare insieme, condividere, sentirsi a casa.
Una casa che ospita, accoglie. Prima di partire una delle mie più grandi paure era quella di essere sola, esclusa, lontana da tutti. Invece, con mia grande sorpresa, fin dal primo giorno trovo l’accoglienza. Accoglienza non solo da parte del gruppo delle mie meravigliose studentesse, che ogni giorno mi riempiono di baci, attenzioni, carezze e domande, ma tutte le persone che ho incontrato mi hanno fatto sentire una di loro. Non ero più solo io, italiana, viaggiatrice solitaria a fare volontariato in Brasile, non ero più sola.
Ero in un gruppo, e insieme respiravamo la libertà.
La libertà di essere se stessi, indipendentemente dalla propria origine, dal colore della pelle e, soprattutto dai gusti sessuali. Quella dell’orientamento sessuale è una questione spinosa in Italia; nel Brasile che ho conosciuto io è libera espressione di sé.
Un giorno stavo viaggiando, e sul pullman ho incontrato Camila, una signora brasiliana che in un’ora mi ha raccontato metà della sua vita. Mi dice che ha vissuto qualche anno a Chicago, ma che poi è tornata perché il Brasile le mancava troppo. Negli Stati Uniti, mi spiega, poteva uscire a qualsiasi ora del giorno e della notte senza sentirsi in pericolo, era più sicura; ma in Brasile è più libera.
Nell’istante in cui pronuncia questa frase capisco che liberdade è la parola giusta per tutto questo.
Qualche giorno dopo sto pranzando a scuola con le mie bambine. Ogni volta non so a che tavola sedermi, tutte mi vorrebbero accanto a loro e io non voglio deluderle. Così stendiamo una lista: ogni giorno mi siedo a un tavolo diverso.
Comunque, sono seduta e ho appena finito la mia razione di arroz e feijao (riso bianco e fagioli, ogni giorno questo è il menu) e accanto a me Laìs sta per chiedermi qualcosa. L’occhiataccia di un’insegnante la zittisce all’istante, d’altronde siamo nella prima parte del pranzo, nessuno può parlare. Si mangia in rigoroso silenzio. Il divieto si esaurisce dopo che tutti hanno terminato, e nella sala esplode la confusione. Finalmente Laìs può farmi la domanda desiderata: “Sora, você enamora?” Mi sta chiedendo se ho un partner in amore, non specifica il sesso. Rispondo che si, sto con qualcuno. Le altre nostre compagne di tavolo ci stanno ascoltando, incuriosite dalla mia risposta. “Ah! E’ un maschio o una femmina?”
Sorrido tra me e me pensando a quanto è bella questa liberà.
Martina
Questo è il secondo di una serie di tre post sul Brasile. Seguici su facebook per non perderteli!
Di Martina leggi anche: Rio de janeiro, una magia, Alla scoperta dell’Olanda, Fiori, funghi, api. 22 giorni nelle Repubbliche Baltiche.
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