Alla Sacra di San Michele su ferrata: viaggiare leggeri (e senza peccato)

Pubblicato il 18 Dicembre 2017

Scritto da Eleonora

Angeli, eremiti, santi, esoterismo, giochi di potere e morti violente. Non sto parlando dell’ultima stagione di Game of Thrones, ma della storia di uno dei più bei monasteri d’Italia, la Sacra di san Michele. Mille anni fa era meta di pellegrinaggi, tappa obbligata sulla via Francigena, officina di copisti, burocrati, teologi; oggi la Sacra è silenziosa, la sua pietra muta. Ma ascoltate con più attenzione: non la sentite sussurrare?
Ecco a voi la guida del perfetto pellegrino: prontuario per sbrogliare gli intrecci di simboli e supportare la redenzione dei vostri peccati.

Breve introduzione noiosa storica: fondazione della Sacra

C’era una volta un Papa dell’Auvergne, antica regione della Francia centrale.
E c’era una volta anche un amico del Papa, dell’Auvergne anche lui, Ugo, “il manibucate” per gli amici.  Correva l’Anno Domini 983, tempo in cui l’attività preferita dei nobili europei era spaccare la testa ai saraceni, commettere peccati e chiedere assoluzioni. Il buon Ugo, che aveva a cuore la salute della sua anima, chiese all’amico Papa un’indulgenza; il Papa accolse la richiesta di Ugo, ma a un prezzo: avrebbe dovuto costruire una Abbazia nella val di Susa o, in alternativa, passare tre anni in esilio dalla sua amata Auvergne.

Questo post e la Sacra di san Michele esistono perché Ugo non solo era manibucate, ma anche piuttosto pigro.

(Fine breve parentesi noiosa storica)

Raggiungere la Sacra di San Michele: la scalata, la via ferrata

Si parte: anche il cammino per raggiungere la Sacra non poteva che essere un tributo all’espiazione. È all’imbocco stretto della Val di Susa, arroccata sul monte Pirichiano. La stradina per raggiungere la cima è una vecchia mulattiera – la stessa dei tempi di Ugo? – con un vecchio ciottolato, un transito nei boschi e il passaggio nei paesini di san Pietro e di sant’Ambrogio: in totale circa un’ora e 40 minuti a piedi. L’alternativa per i più inclini alla penitenza (o per gli amanti del rischio) è una ferrata di 4 ore e mezza: 600 metri di dislivello, difficoltà medio-bassa e due ponti tibetani con vista sulla valle (necessaria menzione di un capannone-scempio-edilizio che guasta il panorama). I punti più ripidi sono provvisti di ferri per appigliarsi e l’unica vera difficoltà è la lunghezza.

Noi di Pain de Route ovviamente abbiamo scelto la ferrata. Ovviamente perché più inclini alla penitenza.

(citation needed: ci si può anche arrivare in macchina. Ma davvero avete così poco a cuore la salvezza della vostra anima?)

Le origini della Sacra: Longobardi e il regno di san Michele

Salite, salite, penitenti, ma solo ai puri di cuore sarà concesso l’accesso. Pena la spada dell’Arcangelo Michele, guardiano della Sacra e del monte.

Ma cos’è una Sacra? E perché san Michele? E perchè una Sacra di san Michele in val di Susa?

Ricordate? Siamo attorno all’anno 1000. Un paio di secoli prima i Valsusini avevano subito una dominazione non troppo invasiva dei Longobardi, che però pensarono bene di costruire lì, sul monte Pirichiano, una chiesetta in onore di Michele, il loro santo patrono preferito – avevano in comune l’amore per la guerra e per il menare le mani.
Con quella chiesa i Longobardi marcavano i confini del territorio. Come a dire: a sud di questo punto è roba nostra, roba di san Michele. Il regno dell’Arcangelo correva fino al nord della Puglia, dove era stato edificato un altro santuario-limite, sempre arroccato su un monte: il celebre santuario di san Michele a Monte, in provincia di Foggia. Che vale la pena visitare, in ogni caso.

La Sacra di San Michele cresce: eremiti e visioni

Torniamo in val di Susa: è una zona di confine, e i regni sorgono e rovinano più velocemente nelle zone di confine. Per farla breve, dopo la disfatta dei Longobardi e passaggi randomici di carolingi, saraceni, bizantini, barboni, vandali e predicatori, di san Michele non era rimasto se non il ricordo di un culto.

Ma si sa: a quei tempi la gente si suggestionava facilmente, e chiacchierava con Dio e i santi un giorno sì e uno no.
Attorno al 970 un eremita che eremitava in val Susa vede in sogno l’Arcangelo: è proprio san Michele, che gli ordina di costruire una Chiesa in suo nome su quello stesso monte, il Pirichiano (e per non sembrare troppo dispotico manda schiere di angeli-muratori fiammeggianti che aiutano l’eremita a costruire la chiesa).

Per questo la Sacra di San Michele ha questo titolo così insolito. Non un monastero, non un’abbazia, ma una ‘Sacra’, un posto consacrato dagli angeli di fuoco che accesero il monte Pirichiano (‘pyr‘, fuoco in greco) in quella notte del quasi-Mille.

Lo sapevate?

San Michele ha molti altri volti, oltre a quello con cui si presenta a noi di solito, corazzato e armato di lancia. Tanto tempo fa, in Frigia, la gente venerava Michele per le sue abilità di guaritore. Era il santo delle sorgenti e delle rocce: per questo si manifesta spesso nelle grotte, come a san Michele a Monte, e per questo tante delle sue chiese sono costruite sui monti. Gli era stato assegnato anche il compito di guardare le porte dell’Aldilà, quello di trasportare le anime dei morti e quello di giudicarle, pesando le loro colpe su una bilancia. (Qui un suo ritratto mentre adempie all’ultimo compito, senza farsi scappare l’occasione di menare le mani.) Fate attenzione, gira voce che se la porti sempre dietro, quando è alla Sacra. Quanto leggera è la vostra anima?

Gli strati della Sacra di San Michele: pellegrini e simboli

Salite, penitenti, salite. A prodigio seguí prodigio, e a chiesa si sovrappose chiesa.

Alla piccola comunità fondata dal santo eremita succedette il più serio ordine di Benedettini e una più seriosissimissima serie di abbazie, in buona parte finanziate dal nostro amico Ugo il manibucate. Non senza una certa pressione di san Michele, che di tanto in tanto appariva in sogno a Ugo e lo spronava a darsi una mossa con la costruzione del suo tempio (sic, cronache del tempo). In totale la Sacra è costituita da 5 chiese, di cui alcune sono crollate, altre letteralmente sovrapposte l’una all’altra.

Per 3 secoli la Sacra di San Michele attirò monaci da tutta Europa, divenne un collegio per gli aristocratici locali e, soprattutto, una tappa obbligata sulla via Francigena per i Michelottes, i devoti di san Michele.

Abbiamo già detto dell’impressionabilità della gente del tempo e del fatto che era tutto un trantran di pellegrini. Ogni buon cristiano d’Europa sceglieva il suo santo preferito e partiva, sacca in spalla e Salmi in mano (erano le letture cantate previste per i gradientes, per i pellegrini che ‘salivano’), dal Mont-san-Michel della Normandia alla nostra Sacra, da li’ al santuario di san Michele al Monte in Puglia, e poi oltre il mare per raggiungere, infine, Gerusalemme. Erano le chiese di san Michele, collocate lungo una diagonale che partiva dall’Irlanda e conduceva fino alla città santa.

Tutta, tutta l’opera della Sacra – tutta l’esperienza della Sacra – è stata disegnata per riprodurre la Gerusalemme Celeste della fine dei tempi, il regno dei cristiani risorti alla seconda venuta di Cristo in terra. (E noi, che l’abbiamo provata, l’abbiamo sentita TUTTA, la Gerusalemme Celeste. Infradiciati di sudore e felicissimi).

Le cronache dicono che i passi tra le Alpi e la Sacra di San Michele sono 12mila, multiplo dei 12 stadi per giungere alla virtù secondo san Benedetto e delle 12 porte di Gerusalemme.

Siamo in uno degli strati più bassi, la chiesa inferiore. E’ vuota e quasi non sembra una Chiesa, perché è riempita da una scala che sale su, su, fino a toccare il soffitto delle navate. I gradini sono quasi 200, di quelli piccolipiccoli, che fai più fatica. Li hanno chiamati “lo scalone dei Morti“, perché qui erano sepolti gli abati della Sacra.

Saliamo gli ultimi gradini e ci fermiamo: siamo circondati da miriadi di capitelli, iscrizioni, simboli. Bizzarri agli occhi di chi osserva oggi. Terribili e oscuri per i pellegrini del tempo (non è sempre vera la storia che le cattedrali erano una “Bibbia dei poveri”). I pellegrini non eruditi del tempo coglievano in questi capitelli quello che cogliamo noi: storie, immagini.

Qui c’è una donna col seno scoperto – “sgualdrina!” (quote: pellegrino) – e due serpenti che la mordono. Poco lontano, una sirena con due code. E si sa che le sirene sono delle grandi incantatrici.

Quello che si è dimenticato, invece, è che la donna che allatta serpenti era simbolo della Terra madre: i serpenti sono un antichissimo simbolo ctonio, della terra, della rinascita – pensate all’Uroboro. Per cui la sirena accanto alla Terra non tenta, non incanta, ma semplicemente rimanda all’Acqua.

Un’occhiata rapida agli altri capitelli per scorgere dei grandi classici: Adamo ed Eva, Caino e Abele, Sansone e i Filistei, donne che si strappano i capelli, forse allegorie dell’ira.

Il maestro di questo trip romanico sapeva il fatto suo, e anima il portale con delle iscrizioni che parlano in prima persona al pellegrino. In una il portale prescrive, in rima: “hoc opus ortatur sepius ut aspiciatur”, ‘sta roba è peso, quindi guardala più volte, con attenzione.

A guardia del portale, leoni e grifoni trattengono tra gli artigli delle teste umane. Gli uni sembrano sbranarle, gli altri quasi infondere loro vita. Il cristiano del tempo sa che il leone, Giustizia, è lì a custodire l’ingresso dalle anime malvage ; il Grifone, Resurrezione, premierà i giusti con la vita eterna.  Neanche i Valsusini ricordano, però, che i loro antenati Galli attribuivano alla testa umana dei poteri magici: una o più teste, sopratutto di nemici valorosi, erano un potente amuleto se appese sulla soglia di casa. Leeoravano templi e casetestesi credeva che, una volta morto, ogni uomo sarebbe stato divorato da un mostro, e che questo lo rendeva pronto per l’Aldilà.

In un intreccio floreale sputato fuori (o ingoiato) da dei faccioni cattivi, tra uccelli, lupi e altre creature, sfugge all’osservatore disattento un uomo, nudo. Ci accorgiamo che l’intero tralcio nasce dall’uomo stesso. Oltre ad essere indubbiamente psichedelico, questo groviglio è un riferimento per pochi: l’uomo è Jeesse, il capostipite della dinastia che da Davide giunge a Cristo, ultimo “fiore” che trionferà sul Male (l’os leonis, il Gorgoneion, i faccioni ‘nzò). Previdente, il portale ci suggerisce: “distinguete le bestie dai fiori”.

E mentre noi pellegrini ignoranti ci sforziamo di cavare fuori qualche senso da ogni pietra, PAM. La vediamo, tutta. La porta dello Zodiaco. Il Papa che commissionò l’opera non era uno sprovveduto. Si chiamava Gerberto da Aurillac, e aveva studiato astronomia su testi classici greci. su un lato del portale le costellazioni dello Zodiaco, sull’altro lato altre costellazioni australi e boreali: tutte ordinate e accostate cosi’ come il pellegrino le vedeva in cielo (e qui niente immagini: a voi la meraviglia della scoperta!). Le figure sono classicissime, umane. Anche noi le riconosciamo e rimaniamo col fiato mozzato. Questo ciclo doveva far capire al pellegrino che tutto, anche il ciclo sempre uguale degli astri, tutto era soggetto a Dio e che Dio nei cicli sarebbe rimasto immutato. Che questo eterno girare ha come fine l’uomo, e la sua salvezza tramite Cristo, porta coeliLa porta è il limite da valicare per l’ingresso nel Suo regno: dopo di lei, la salvezza.

Grampasso e io terminiamo la penitenza visita non osando parlare e gustando ogni dettaglio, lentamente. Siamo entrati nella chiesa superiore, l’ultimo strato che poggia su tutti gli altri. Accogliamo l’ultima ammonizione dello scheletrino che in francese stentato ci dice “o vous qui pour ici passe prie dieu por les trapasse car haur comme vos aviont ete et heut comme nous sare.”, ci chiede il favore di una preghierina, perché presto ci troveremo nella sua stessa condizione, lui fu come noi siamo e noi saremo come loro.

Salutiamo le rovine di una delle cinque chiese, riprendiamo fiato. Guardiamo giù, sulla valle: si racconta che una fanciulla, la bell’Alda, si sia lanciata dallo strapiombo per fuggire ai nemici e che Maria Vergine l’abbia salvata (una volta soltanto; al secondo volo la Madonna non si scomodò). Infine, i concediamo di tornare giù a valle dalla vecchia mulattiera, giù dal monte Pirichiano, il monte di fuoco.

Ma se alla fine vi dicessi che “Pirichiano” non ha a che fare con nessun fuoco e nessun angelo, ma che furono i Galli a chiamarlo così, e che vuol dire “monte del porco”? Cambierebbe qualcosa?

E se vi dicessi che i Benedettini mandarono in rovina la Sacra di San Michele perché gli abati erano diventati burocrati corrotti e di sacro non c’era più nulla?

E che probabilmente san Michele non si fece vivo, e che le schiere di angeli di fuoco furono solo il sogno di un eremita, cambierebbe qualcosa?

Noi siamo giunti ai piedi del Pirichiano e ci voltiamo a guardare il profilo lontano della sacra.

E voi? Voi salite, penitenti, salite.

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